IL CULTO DEI MORTI E LA DIVINAZIONE

L’arte della divinazione Il segno più importante, la “voce” più potente della divinità era il fulmine, che proveniva direttamente dal dio supremo Tinia; l’ars fulguratoria, cioè quella di trarre dalla sua osservazione tutte le informazioni possibili, era quindi al primo posto nella divinazione etrusca. Era regolata da una casistica alquanto complessa che teneva conto della parte del cielo in cui il fulmine appariva (la volta celeste era divisa in sedici parti, abitata ognuna da una divinità), della forma, del colore, degli effetti provocati e del giorno della caduta. Oltre all’osservazione dei fulmini (cheraunoscopia) c’era un’altra forma di divinazione molto generalizzata alla quale era possibile ricorrere ogni volta che fosse ritenuto utile o necessario senza dover attendere altre forme di prodigi dipendenti invece dal caso, come appunto il fulmine. Era l’epatoscopia, o lettura del fegato degli animali sacrificati, che i romani chiamavano haruspicina. Il fegato, la cui immagine si riteneva fosse proiettata la divisione della volta celeste, veniva strappato ancora palpitante dal corpo dell’animale (pecora, bue, cavallo) e se ne osservavano le regolarità e irregolarità a ognuna delle quali era attribuito un messaggio. Per questo venivano usati degli appositi modelli in bronzo o in terracotta sui quali erano riprodotte le varie ripartizioni e scritti i nomi delle divinità. Fra i modelli giunti sino a noi il più celebre è il “Fegato di Piacenza”. Oltre al fegato gli arùspici leggevano anche altre viscere come il cuore, i polmoni, la milza.

Il rito di fondazione Fra i dettami della disciplina etrusca famoso in tutta l’antichità era quello della fondazione di città per il quale erano previste meticolosissime disposizioni. Gli aùguri cominciavano col delimitare una porzione di cielo consacrata proprio in funzione del rito (e definita con il termine significativo di templum) all’interno della quale trarre gli auspici dedotti dal volo degli uccelli che la attraversavano, dai fenomeni meteorologici che in quel perimetro potevano verificarsi, o da altre manifestazione considerate provenienti dalle divinità. Erano poi individuati il centro della città stessa e delle principali direttrici viarie scavando fosse in cui venivano deposte offerte e sovrapposti cippi che fungevano sia da punti di riferimento sia da luoghi sacrali. Veniva poi tracciato con un aratro dal vomere di bronzo un solco continuo che disegnava il perimetro delle mura, interrotto solo là dove si sarebbero aperte le porte delle città; il solco diventava subito linea inviolabile per tutti gli uomini e attraversarlo equivaleva ad attaccare la città. Lungo tutto il perimetro delle mura correva inoltre, tanto all’esterno quanto all’interno, un’ampia fascia di terreno (il pomerium) che non doveva essere né coltivata né edificata e che era dedicata alla divinità. Una solenne cerimonia di sacrificio inaugurava la città così prefigurata. La fondazione di Roma a opera di Romolo e Remo così come ce l’hanno tramandata le leggende è un’applicazione puntuale del rito etrusco: i gemelli che osservano il volo degli uccelli per decidere chi dei due dovesse dare il nome alla città, il solco tracciato da Romolo, l’uccisione di Remo che, saltando all’interno del perimetro, profana i sacri confini e “invade” la nuova fondazione.

Le pratiche rituali Dal momento che con le arti divinatorie veniva raggiunta la conoscenza del volere divino, si trattava di dare attuazione a tutto ciò che ne derivava dal punto di vista del comportamento. Occorreva cioè agire sulla base delle norme prescritte dalla “disciplina” e oggetto della trattazione specifica dei “libri rituali”. Tali norme si traducevano in una serie interminabile di pratiche, di cerimonie, di riti. Si dovevano perciò determinare i luoghi, i tempi e i modi nei quali e con i quali doveva essere eseguito quello che veniva chiamato il “servizio divino” (aisuna o aisna, da ais che significa dio), nell’indicazione delle persone alle quali l’azione competeva e, naturalmente, prima di tutto, della divinità alla quale essa era dedicata. I luoghi dovevano essere circoscritti, delimitati e consacrati; i tempi regolati dalla successione cronologica delle feste e delle cerimonie previste ed elencate nei calendari sacri; i modi rispettati fin nei minimi particolari, tanto che, qualora fosse stato sbagliato oppure omesso un solo gesto, tutta l’azione avrebbe dovuto essere ripresa da capo. Nelle funzioni trovavano ampio spazio la musica e la danza; le preghiere potevano essere d’ espiazione, di ringraziamento o di invocazione; i sacrifici cruenti riguardavano particolari categorie di animali; le offerte comprendevano prodotti della terra, vino, focacce e altri cibi preparati. Particolarmente diffusa, tanto a livello di religiosità “ufficiale” quanto a livello di religiosità popolare, era l’usanza dei doni votivi. Nel primo caso poteva trattarsi di statue o altre opere d’arte, di oggetti particolarmente preziosi, di prede di guerra e di edifici sacri; nel secondo caso i doni erano solitamente piccoli oggetti, per lo più di terracotta (ma anche di bronzo, di cera e mollica di pane) che i fedeli compravano nelle apposite rivendite presso i santuari.

Il rituale funerario Durante il periodo villanoviano, il corpo del defunto era spesso cremato; le sue ossa combuste venivano raccolte in un apposito vaso che per la sua forma gli archeologi hanno chiamato “biconico”, poichè costituito da due coni contrapposti, collegati per le basi (museo archeologico-topografico, sala di Roselle ecc.). In genere, questo contenitore ha soltanto un’ ansa (quando ve n’erano due, una veniva ritualmente spezzata). Inoltre, la sua bocca è coperta da una ciotola, anch’essa munita di una sola ansa; oppure, nel caso che il defunto fosse appartenuto alla classe dei guerrieri, è talvolta coperta da un elmo. Il vaso e il corredo funebre, composto dagli oggetti più cari al defunto, vengono deposti in un “pozzetto”, scavato appositamente nel terreno; talvolta, le sue pareti vengono foderate con lastre di pietra e l’apertura ne è chiusa con un lastrone. In alcune zone dell’Etruria d’epoca villanoviana i cinerari hanno la forma di capanna, le cosiddette “urne a capanna” appunto (museo archeologico-topografico, sala di Vetulonia), quasi a voler ricostruire per il defunto la sua casa terrena. Il corredo mostra alcune differenze, soprattutto a livello di sesso: spesso la presenza di un rasoio distingue la deposizione dell’uomo, mentre quella della donna è evidenziata da oggetti usati per la filatura, come un fuso o una fuseruola. Successivamente, nell’VIlI secolo a.C. il corredo che accompagna il defunto diventa più prezioso, aumentano gli oggetti di metallo, soprattutto in bronzo, e compa- provenienti dalla Grecia; cominciano inoltre altri tipi di sepolture, contraddistinte da dimensioni maggiori, come le tombe a fossa, nelle quali viene deposto il defunto inumato. Con l’inizio di questo tipo di sepoltura, il rito cambia; in-fatti, il corpo del defunto non è cremato, ma è deposto in una fossa scavata nel terreno, munita talvolta di pareti foderate con lastre di pietra -Sovana-, come i “pozzetti”. In alcune aree dell’Etruria, per esempio a Vetulonia, più tombe di questo tipo vengono riunite entro circoli di pietre, quasi a voler tener uniti i membri di una medesima famiglia. La differente ricchezza presente nei contesti funebri è un dato molto importante perche segnala, all’interno della società etrusca, il formarsi di una diversa stratificazione sociale rispetto alla più omogenea situazione del periodo villanoviano. Nel periodo orientalizzante, nel VII secolo a.C., troviamo tombe costruite o scavate nella roccia; la scelta fra le due possibilità è dovuta ai diversi tipi di formazione geologica presenti nelle differenti aree e, per molti decenni, i membri di una stessa famiglia (gens) vengono sepolti all’interno di una medesima tomba . I corredi raggiungono talora livelli di ricchezza eccezionali; la tomba assume carattere monumentale, manifestando così la potenza della famiglia a cui appartiene. Un lungo dròmos (corridoio) porta all’interno della tomba, in cui è scavata o costruita la camera funeraria sotterranea; all’esterno la protegge un tumulo artificiale di terra, contenuto da un “tamburo” (un muro circolare) di pietra. Dal VI secolo a.C. diminuiscono le dimensioni delle tombe, scompare il loro aspetto monumentale e si assiste talvolta a una specie di “pianificazione edilizia” all’interno della necropoli, come quella della Necropoli del Crocifisso del Tufo a Orvieto. Il dato archeologico ci fa comprendere, in tale caso, che la grande aristocrazia, quella proprietaria dei monumentali tumuli, ha perso potere in quest’area, lasciando spazio a un ceto medio. Le costruzioni monumentali permangono in uso solo in alcune zone dell’Etruria. A Populonia troviamo nella seconda metà del VI secolo un tipo di costruzione piuttosto origi nale, la cosiddetta “tomba a edicola”, il cui esterno è simile a una piccola casa munita di un tetto a doppio spiovente. Nel periodo ellenistico ci sono ancora tombe di proporzioni monumentali, come quelle di Sovana o di Norchia, le note e affascinanti tombe rupestri scavate nella roccia tufacea. Le loro facciate imitano quelle dei templi o dei palazzi, come si rileva per la tomba Ildebranda a Sovana. S’intendeva evidentemente eroizzare il defunto, deponendo il suo corpo all’interno di un vero e proprio “tempio”; vicino alla tomba vi possono essere altari per le celebrazioni cultuali dei defunti. Nello stesso periodo, a Volterra le tombe vengono scavate nella roccia tufacea; sulle loro banchine, ricavate nella pietra, troviamo urne contenenti le “ceneri” dei defunti di una medesima gens . Tali “urnette”, prodotte dalle botteghe locali in alabastro o tufo, sono decorate sulla cassa con rilievi più o meno alti, raffiguranti scene mitologiche tratte dal repertorio greco (Iliade, Odissea, ecc. ) oppure legati al mondo etrusco (il congedo del defunto dai propri cari, mostri dell’aldilà ecc.). Il coperchio “rappresenta” in genere il defunto/a disteso sul letto da banchetto. Il viso della persona effigiata non è inteso quale ritratto nel senso proprio del termine, ma piuttosto una “tipologia” di volto, che raffigura per esempio una “giovane donna” oppure un “uomo anziano”. Nel II secolo a.C., accanto a questo tipo di urna cineraria, rivolta a una committenza appartenente a un ceto “medio”, compaiono urnette in terracotta, provenienti dal territorio di Chiusi, realizzate a matrice e deposte in tombe a “nicchiotto” semplicemente scavate. Furono fatte per una classe sociale economicamente meno rilevante, che tuttavia ebbe notevole fortuna politica nell’Etruria Settentrionale del tempo. In alto, sulla cassa, è scritto il nome del defunto, a testimoniare la diffusione dell’alfabetizzazione, ormai raggiunta anche da ceti sociali “subalterni”. L’antropomorfizzazione e le statue cinerario Il Museo Archeologico di Firenze rivela al visitatore un aspetto interessante della civiltà etrusca, talvolta non del tutto conosciuto. Il fenomeno riguarda in particolare la città di Chiusi, le cui manifestazioni connesse all’arte e all’artigianato rivelano, già nel VII secolo a.C., una tendenza all’antropomorfizzazione: i vasi canopi. Sono ossuari realizzati in genere con ceramica di impasto, ma talvolta anche in metallo (bronzo), cinerari che presentano per coperchio una raffigura zione stilizzata della testa del defunto; qualche volta, il “vaso” ha due piccole braccia disegnate a rilievo e può essere collocato sulla rappresentazione miniaturizzata di un sedile (Museo archeologico-topografico, sala di Chiusi). Qualcosa di simile troviamo anche nel periodo Villanoviano, quando per coperchio del vaso biconico è posto un elmo, quasi a voler restituire un ‘integrità fisica al defunto. Successivamente, nel V secolo a.C., questa tendenza diventa ancora più evidente con la presenza, sempre nella città di Chiusi, di statue cinerario: grandi sculture, come quella della Mater Matuta, scolpite in pietra, che ospitano in una cavità interna le “cene ri” del defunto, mentre la testa amovibile della statua funge da “chiusura”. La tomba come casa del defunto Gli scavi archeologici delle necropoli ci hanno fornito molti dati sulla civiltà etrusca. Un fattore costante nell’ideologia funeraria etru- sca risulta la tomba, sentita come dimora del defunto. Abbiamo già riferito di alcune urne cinerarie conformate “a capanna”, ma anche taluni monumenti funerari possono denotare questo aspetto. L’ingresso della tomba può essere costituito da una porta in pietra con tanto di battenti e, a guardia di essa come a custodia di un’abitazione terrena, sono poste statue di animali fantastici, quali sfingi leonine, o più vicini alla realtà, come i leoni; oppure, a testimonianza dell’ importanza del defunto, troviamo statue rigididamente composte di prefiche. Talvolta le camere sotterranee delle tombe gentilizie riproducono fedelmente la pianta e l’interno di un’abitazione, il cui “arredo” viene allora “scolpito” nell’interno: sedie, letti, porte modanate, le stesse suppellettili, nonche i tetti a doppio spiovente con l’orditura delle travi del soffitto. Medesima decorazione si riscontra nella forma e nel coperchio di alcune urne cinerarie, che hanno l’ aspetto esteriore identico a quello di una casa. Da tutto ciò emerge chiaramente l’immagine di un mondo dell’aldilà molto prossimo a quello terreno. Gli oggetti che facevano parte del corredo funebre testimoniano la volontà degli Etruschi di ricreare nell’oltretomba la realtà di ogni giorno. Un’ulteriore testimonianza di ciò è notoriamente rappresentata dalle pitture delle tombe, che spesso riproducono scene di vita quotidiana e in particolare di banchetto.

Il culto dei morti Tra le pratiche di carattere religioso, un posto del tutto particolare occupavano quelle che avevano come destinatari i defunti. Nei primi tempi, esse erano legate alla concezione della continuazione dopo la morte di una speciale attività vitale del defunto. A tale concezione si accompagnava l’ idea che quell’attività avesse luogo nella tomba e fosse in qualche modo congiunta alle spoglie mortali. Dato però che tutto dipendeva dalla collaborazione dei vivi, i familiari del defunto erano tenuti a garantire, agevolare e prolungare per quanto possibile la “sopravvivenza” con adeguati provvedimenti. La prima esigenza da soddisfare era quella di dare al morto una tomba, che sarebbe diventata la sua nuova casa; subito dopo veniva quella di fornirgli un corredo di abiti, ornamenti, oggetti d’uso e, insieme, una scorta di cibi e bevande. Il resto era un arricchimento e poteva variare a seconda del rango sociale del defunto e delle possibilità economiche degli eredi. Si poteva così foggiare la tomba nell’aspetto sia pure parziale o soltanto allusivo della casa, e dotarla di suppellettili e arredi, e magari affrescarla sulle pareti con scene della vita quotidiana o dei momenti più significativi della vita del defunto. Quanto alle pratiche proprie dei funerali, esse andavano dall’esposizione al compianto pubblico al corteo funebre al banchetto davanti alla tomba. Tutte queste pratiche, insieme alle cerimonie e ai riti che dovevano essere compiuti in onore di divinità connesse con la sfera funeraria, facevano parte di un autentico culto dei morti, sacro da rispettare e da venerare. La situazione tuttavia cambiò con il tempo: infatti, per effetto delle suggestioni provenienti dal mondo greco, nel corso del V secolo a .C., alla primitiva fede di sopravvivenza del morto nella tomba, si sostituì l’idea di uno speciale regno dei morti. Questo fu immaginato sul modello dell’Averno (o Acheronte) greco, il regno dei morti, governato dalla coppia divina di Aita e Phersipnai (Ade e Persefone greci). ALCUNE OPERE: ARRINGATORE Tratto dal testo della sovrintendenza del Museo Archeologico di Firenze Provenienza: Il grande bronzo entrò a far parte, nel 1566, delle collezioni del Granduca Cosimo de’ Medici. Scrive a tal proposito Vasari, in una lettera datata 20 settembre 1566, al Borghini: “Il Duca ha avuto una statua di bronzo intera che non gli manca niente, d’uno Scipione Minore” - (l ‘identificazione era errata) -“di braccia 3 incirca in atto di locuzione”. Non conosciute le circostanze del recupero, il luogo di rinvenimento rimane incerto tra quello tradizionale, Sanguineto (PG) sulla riva settentrionale del lago Trasimeno, e Pila, presso Perugia, località emersa da fonti archivistiche. Stato di conservazione e tecnica: grande statua in bronzo eseguita con tecnica a cera perduta, a fusione cava, in sette parti (testa e collo, tronco in due pezzi, braccio destro, mano sinistra, le due gambe) poi saldate e, nel caso delle gambe, inferiormente piene per maggior robustezza, fissate con chiodi alla toga. Gli occhi, in diverso materiale (avorio, osso e/o pasta vitrea) erano inseriti a parte e sono oggi perduti. Ciocche di capelli, bordi della toga, iscrizione ed altri particolari sono incisi. La mano destra fu spezzata al momento del primo rinvenimento. Datazione: primi decenni del I sec. avanti Cristo. Soggetto: la statua, a grandezza naturale, rappresenta un uomo maturo, con i capelli aderenti alla testa pettinati a ciocche, vestito di una corta toga (toga exigua), praetexta, e, a contatto con la pelle, di una tunica bordata da una stretta banda (angustus clavus; vedi il braccio destro). Indossa dei calzari (calcei). Il suo rango è dichiarato dall’ anello che porta alla sinistra. La destra è alzata, la mano aperta nel gesto del silentium manu lacere: il personaggio è ritratto nel momento in cui, apprestandosi a parlare in pubblico, chiede l’attenzione, di qui il nome con cui la statua è universalmente nota, l”’arringatore”. Il personaggio, un etrusco, come vedremo dall’iscrizione, si atteggia e veste ormai alla maniera romana: la sua veste, pur riportabile alla tebenna etrusca, è ormai accostabile alla toga romana; i calzari presentano la caratteristica linguetta (lìngula) e le corregge (corrigiae) dei calcei senatorii romani. L’iscrizione: incisa su tre righe sul bordo della toga, è un ‘iscrizione di carattere “pubblico”: la grafia è composta e ben curata, le lettere presentano appendici (apicature) destinate a renderle più belle e ricercate. Il tipo di alfabeto usato è quello presente, in epoca tardo etrusca, nell ‘area di Chiusi e Cortona. aulesi .metelis .ve. vesial. clensi cen .jleres .tece .sansl. terine tu ines .chisvlics così interpretabile: “per Aule Metelifiglio di Vel e di una Vesiquesto (oggetto sacro) al dio Tece Padre è posto (o simile) dal pago (o vico) di Chiusuli”. Certa è l’interpretazione della prima riga, incerta quella delle altre; quanto basta comunque per capire che ci troviamo di fronte ad una statua comnemorativa di un uomo pubblico, politico, Aulo Metello appunto, offerta in suo onore da una qualche comunità in un santuario della zona di Perugia o, più probabilmente, del Trasimeno. Il ritratto: l’iscrizione dichiara con evidenza che, con questa statua, si voleva ricordare, e rappresentare, un uomo ben preciso, Aulo Metello. Anche il volto dunque si sarà voluto avvicinare alle fattezze del personaggio, accentuandosi in questo una tendenza stilistica di pronunciato verismo di influenza, ancora, romana. Lungo e dibattuto è il problema del nascere e del fiorire del genere artistico del ritratto, e, soprattutto, il problema di quando si possa parlare, per una testa dipinta o scolpita, di ritratto, nella “moderna” accezione del termine. Nella sua evoluzione sono state individuate le seguenti tappe: l) ritratto intenzionale: il primo impulso al ritratto, che si manifesta nella sua forma più ingenua, attribuendo un nome determinato ad una immagine generica; 2) ritratto tipologico: la genericità dell’immagine si riduce, cercandosi di indicare con essa la classe di appartenenza del personaggio raffigurato (un re, un guerriero, un dio), e la sua età (vecchio, giovane). La III e la IV tappa tendono ad imitare precisamente le fattezze individuali del soggetto, riproducendone veristicamente i tratti somatici (ritratto fisionomico) ed infine cercando di conferire ad essi un’espressione psicologica che meglio ricordi il personaggio: è il ritratto fisionomico, ritratto nella sua accezione moderna, che affonda però le sue radici nei fermenti della Grecia del IV sec., quando, sullo stimolo della sofistica, si abbandonano le più antiche remore ideologiche che avevano fino ad allora impedito dieternare con un tale tipo di ritratto un individuo isolandolo al di sopra della massa di suoi pari, per giungere ora ad un più pieno apprezzamento della individualità del singolo. Se ancora per il sarcofago dell”’obeso” siamo incerti se ci troviamo di fronte ad un ritratto fisionomico, e non piuttosto ad un ritratto tipologico di dominus adagiato sulla sua kline, per la nostra statua è ormai chiara, nella cura minuziosa dei dettagli, la potente influenza del verismo ritrattistico di Roma. Il collo è lungo, la fronte è solcata da profonde rughe, il taglio degli occhi prosegue lateralmente in sottili incisioni e la loro intensità è aumentata dall’ampiezza delle guance, magre e glabre; la bocca, ben disegnata, è sottolineata da un mento piuttosto deciso. Aule Meteli, un etrusco (lo dichiara, l’iscrizione) che veste, si fa ritrarre alla maniera romana. Un etrusco, dunque, ormai pienamente romanizzato, come giuridicamente romanizzata è, proprio in questi anni, l’Etruria che, con la Lex Iulia e laLex Calpurnia de civitate (90 a.C.), acquisisce la cittadinanza romana. La nostra statua è dunque un monumento che possiamo prendere a simbolo dello scomparire di una civiltà, quella etrusca, lentamente ed inesorabilmente assorbita da quella romana. Con debita prudenza possiamo quasi riassumere in questo bronzo un’epoca: “ Aulo Metello, nato etrusco, cittadino romano”. CHIMERA Tratto dal testo della sovrintendenza del Museo Archeologico di Firenze La storia La Chimera fu scoperta nel 1553 (secondo il Vasari nel 1554), durante la costruzione di fortificazioni medicee alla periferia della città. Il ritrovamento avvenne il 15 novembre 1553 e dopo il rinvenimento fu subito trasportata a Palazzo Vecchio. Questa scoperta sensazionale ebbe larga eco tra artisti e letterati dell’epoca, come ad esempio il Cellini, il Vasari, Tiziano ecc. ela notizia si diffuse assai rapidamente, tanto che nella seconda metà del’500 la Chimera divenne l’interesse precipuo e la mèta di numerosi viaggiatori stranieri che ne parlarono in appunti di viaggio corredati spesso da disegni dell’opera. Da alcuni disegni più antichi e da notizie sul ritrovamento nell’Archivio di Arezzo risulta che solo la coda, rintracciata dal Vasari, mancava e che non fu ricomposta. Così viene anche a cadere la leggenda che vedeva nel Cellini l’esecutore del restauro integrativo delle zampe che dovevano quindi essere complete seppur danneggiate. Dopo il rinvenimento si cominciò la ricerca di testimonianze iconografiche che garantissero che si trattasse proprio della Chimera di Bellerofonte, indirizzando l’indagine soprattutto sui reperti numismatici. Dal Vasari (Ragionamenti sopra le invenzioni da lui dipinte in Firenze nel palazzo di loro Altezze Serenissime, Firenze 1558, ed Arezzo 1762, pp. 107-8) si ricava e si ha testimonianza del metodo seguito per giungere ad affermare che il “leone” scoperto ad Arezzo era proprio la Chimera. Ad un interlocutore che domanda se si tratta proprio della Chimera di Bellerofonte, come dicono i letterati, il Vasari così risponde: “Signor sì, perche ce n’è il riscontro delle medaglie che ha il Duca mio signore, che vennono da Roma con la testa di capra appiccicata in sul collo di questo leone, il quale come vede V.E., ha anche il ventre di serpente, e abbiamo ritrovato la coda che era rotta fra que’ fragmenti di bronzo con tante figurine di metallo che V.E. ha veduto tutte, e le ferite che ella ha addosso, lo dimostrano, e ancora il dolore, che si conosce nella prontezza della testa di questo animale...”. Quindi, per risolvere i problemi interpretativi che si erano venuti a creare con il ritrovamento della statua, l’indagine non si limitò alle testimonianze letterarie e mitologiche, ma progredì nella ricerca di documentazioni iconografiche antiche, particolarmente per quello che concerneva la documentazione numismatica. E non si può escludere che la ricerca di medaglie avesse come fine ultimo quello di scoprire un modello per restaurare la statua che mancava della coda. Infatti, furono trovate delle monete d’argento di Sicione recanti l’immagine della Chimera. Queste monete, ora nel Medagliere del Museo Archeologico di Firenze, facevano presumibilmente parte delle Collezioni Granducali. Esse mostrano la Chimera con la giusta posizione della coda, formata dal serpente. La coda con la testa di serpente doveva avventarsi minacciosa contro l’avversario e non mordere un corno della testa della capra: si tratta infatti di un restauro sbagliato eseguito, in epoca neoclassica, da Francesco Carradori nel 1785. I Medici e la Chimera La Chimera, come abbiamo detto sopra, fu subito portata a Palazzo Vecchio nella sala di Leone X: si trattava di un’operazione non solo artistica (in quanto si adattava al progetto decorativo stabilito dal Vasari) ma anche “strategica”; in questo senso la Chimera, l’opera più importante dell”’etruscheria” toscana, stava anche a simboleggiare le fiere che Cosimo aveva combattuto e domato per costruire il suo regno. Il mito Chìmaira, in greco, letteralmente significa capra. Ed infatti questo mostro della mitologia greca con il corpo e la testa di leone, talvolta alato, con la coda a forma di serpente, portava nel mezzo della schiena una testa di capra. Omero (II. VI, 181-182) ed Esiodo (Theog., 321-322) narrano che era figlia di Tifone. La Chimera fu uccisa dall’eroe Bellerofonte, ritenuto da alcuni addirittura figlio di Posidone; Bellerofonte riuscì a catturare e domare il cavallo alato Pègaso, con il quale riuscì ad uccidere la Chimera. La statua bronzea del Museo Archeologico di Firenze rappresenta la Chimera ferita in atto di avventarsi sul suo aggressore, mentre la testa di capra si reclina, morente, per le ferite ricevute. La coda con la testa di serpente, come abbiamo detto, è un restauro non giusto: doveva avventarsi minacciosa contro l’avversario e non mordere un corno della testa della capra. Probabilmente, la Chimera faceva parte di un gruppo con Bellerofonte sul Pegaso che colpiva dall’alto, come fa supporre la ferita sanguinante sul collo della capra. Però non si può escludere completamente 1 ‘ipotesi che si trattasse di un dono votivo a se stante. La datazione Molto si è discusso sull’appartenenza della Chimera all’arte etrusca, tesi ormai accettata senza riserve dagli studiosi. La “maniera etrusca” già notata dal Vasari si riflette in quel misto di naturalismo (nella muscolatura e nelle vene rilevate, rese con calligrafico realismo, del corpo teso del leone) e di stilizzazione (nella testa con fauci spalancate in atto di feroce aggressione e nel pelame della criniera e del dorso, reso con ciocche dette convenzionalmente “a fiamma”); di conservatorismo (negli elementi convenzionali arcaizzanti della testa e della criniera) e di intensa espressività (nell’aggressività feroce del muso del leone e nel patetico abbandono della testa della capra). Altro elemento a favore della etruschità di questa opera d’arte è la iscrizione sulla branca anteriore destra, tracciata sul modello ed eseguita insieme alla fusione. Vi si legge tinscvil, cioè dono votivo al dio Tinia (assimilabile al Giove dei Romani). Si tratta di un’iscrizione dedicatoria con caratteristiche grafiche appartenenti all’area etrusco-settentrionale, cosa che avvalorerebbe l’ipotesi di una offi- cina nord-etrusca, localizzata ad Arezzo o in zona contigua. Per quanto riguarda la datazione, quella finora consueta della fine del V secolo a.C. è universalmente abbassata ai primi decenni del IV sec. a.C. La collocazione al Museo Archeologico Come abbiamo detto sopra, la Chimera rimase a lungo, come un simbolo, a Palazzo Vecchio e solo molto tempo dopo, nel 1718, venne trasportata nella Galleria degli Uffizi, proprio come oggetto da esporre in museo. Non a caso fu trasportata agli Uffizi: in questo periodo, la famiglia Medici non era più quella potente di una volta e cominciava anche, lentamente, uno studio più serio sull”’etruscheria”, che andava ben oltre la semplice curiosità. Dopo il 1879 ci furono forti pressioni perche tutto il materiale antico fosse collocato nel Palazzo della Crocetta, l’odierna sede del Museo Archeologico. Lo scopo fu raggiunto solo in parte, ma tra le opere trasferite ci furono l’Idolino, la Chimera ed altri bronzi classici (1890). MATER MATUTA Provenienza: Chianciano (Siena). Venne scoperta probabilmente nel 1846 o nel 1847 da Luigi Dei in un terreno a 1 krn. a sud di Chianciano, in località ‘La Pedata’. Stato di conservazione: lacunoso, con numerose reintegrazioni. Datazione: 450-440 a.C La statua-cinerario aveva subìto un primo restauro ad opera di restauratori chiusini dell’800, i quali, seguendo il gusto e la moda dell’epoca, avevano integrato le parti mancanti con tasselli, scolpiti nella stessa ‘pietra fètida’ della scultura (pietra arenaria a grana finissima, tipica delle cave esistenti nelle vicinanze di Chiusi), tenuti insieme da un impasto di polvere di pietra fètida e di gomma collosa di natura organica, in modo da ottenere l’effetto di integrità. A causa dei danni rilevanti arrecati alla Mater Matuta dall’alluvione del 1966, fu necessario un nuovo intervento di restauro, effettuato con tecnica perfezionata e rigore scientifico, che ha pennesso di discernere le parti autentiche del monumento dai posticci del restauro ottocentesco ( eliminati, quindi, nella nuova ricostruzione). Il cinerario è in fonna di statua femminile, che regge sul grembo un bambino, avvolto in un panno. La figura è seduta su un trono, di fonna cubica, con i braccioli pieni a fonna di finge accosciata con le ali aperte. La testa, mobile, fungeva da coperchio; ugualmente mobili sono i piedi. Il corpo, che fa un tutt’uno con il tronco, fu probabilmene ricavato da un unico blocco di pietra. Nell’interno della statua, secondo Milani, furono rinvenuti l’oinochòe plastica a testa femminile e lo spillo d’oro con decorazione granulare, conservati nella vetrina adiacente. La statua-cinerario di Chianciano, variamente identificata con una divinità (Bona Dea; Tujltha, la dea degli Etruschi protettrice dei morti, Proserpina; o Mater Matuta) con tutta probabilità rappresenta una defunta con il suo bambino. Dal punto di vista stilistico si nota una tale discrepanza tra l’esecuzione della testa e quella del corpo (fenomeno, questo, tuttavia frequentissimo nell’arte etrusca, che si rinnova, anche in epoca posteriore, nelle figure dei defunti sui coperchi delle urne), da far pensare che siano stati prodotti in botteghe diverse. Il corpo, massiccio, si stacca appena dal blocco cubico del trono; il panneggio del chitone e del himàtion è reso con vivo plasticismo e senso volumetrico nelle ampie e pesanti pieghe accentuate soprattutto sulle gambe. Molto bella è la testa, con capelli spartiti sulla fronte, trattenuti da una tenia e ricadenti sulle tempie in bande ondulate; volto ovale con grandi occhi a mandorla, sottolineati da palpebre pesanti; naso diritto; bocca con labbra carnose, leggermente aggettanti, che ne accentuano l’espressione serena e pensosa, che riflette una eco della grande arte greca del V sec. a.C. La datazione è stata molto discussa, oscillando tra la metà del V ed il IV sec a.C. Gli oggetti del corredo (la oinochòe a testa femminile, datata dal Beazley a1470-450 a.C. e lo spillo d’oro granulato, datato nel 2° venticinquennio del V sec.a.C.) ed i dati iconografici sembrano confermare la datazione della Mater Matuta al 450-440 a.C. Per il suo uso come cinerario, la Mater Matuta si collega ai canopi chiusini. Il canopo (o più propriamente “ossuario antropòide”) non è che un ‘urna cineraria con copertura a testa umana, tipica e caratteristica della regione chiusina. A sua volta, il canopo si riallaccia ad una lunga tradizione, che sorge nella civiltà villanoviana. Infatti, la copertura ad elmo di alcuni ossuari villanoviani (generalmente coperti da ciotola-coperchio monoansata) non è che un principio di antropomorfizzazione, che troverà il suo pieno sviluppo proprio nell’ossuario antropoide chiusino. Cronologicamente, i canopi vanno dalla metà del VII al principio dell’età ellenistica (IV sec.a.C.). I canopi, come le statue-cinerario, hanno una testa mobile, che chiude il vaso contenente le ceneri; anche essi sono posti su di un sedile di trono, spesso in terracotta, talora in lamina bronzea, più modesto dei troni delle statue-cinerario, ma indicante una chiara intenzione di onorare il ricordo del defunto. Sia i canopi che le statue-cinerario sono peculiari dell’ambiente chiusino e attestano la continuità coerente e costante di una cultura artistica che può aver determinato il fiorire in Chiusi di una scuola scultorea di notevole importanza. Ciò è dovuto prevalentemente al tipo di fiorente economia agraria, che Chiusi sviluppa in modo particolare, ma che si ritrova anche in altre città dell’Etruria interna (a differenza di quanto troviamo nei centri dell’Etruria costiera, la cui florida economia commerciale e marittima subisce un arresto ed una conversione da mercantile ad agraria soltanto dopo la sconfitta etrusca a Cuffia del 474 a.C. e la conseguente perdita del dominio sul mare). Il SARCOFAGO di LARTHIA SEIANTI Provenienza: tomba a camera della gens Larcna, rinvenuta nel 1877 in loc. Martinella, un km a NE di Chiusi.

Stato di conservazione: il sarcofago, pressochè intatto, conserva gran parte della policromia antica, frequente in monumenti del genere, ma spesso sbiadita irrimediabilmente dal tempo e dalle condizioni di giacitura dei reperti. Realizzato in terracotta, fu confezionato in quattro parti distinte (e poi giustapposte) per l’impossibilità di cuocere insieme il grande coperchio e la grande cassa. La figura è stata eseguita a mano libera; per la decorazione della cassa si è probabilmente fatto uso di stampi. Datazione: secondo quarto delll secolo a.C. Soggetto: la defunta è immaginata semidistesa sulla kline, il busto tenuto eretto puntellando il braccio sinistro su due cuscini a bande gialle, bianche e violacee (nell’indicazione dei colori seguiremo anche le descrizioni del pezzo al momento della scoperta, quando essi erano più vivi) dalle lunghe frange gialle e viola. Tiene nella mano sinistra aperta, dalle dita inanellate, uno specchio circolare: la superficie riflettente interna è in azzurro, la cornice perlinata in giallo e deve quindi essere immaginata aurea. La destra discosta dal volto, in un gesto di pudicizia, un lembo dell’ampio mantello bianco, bordato da una striscia violacea tra due minori verdi, che le avvolge le spalle, i fianchi e le gambe, coprendo una tunica, pure bianca, decorata da tre bande verticali (due laterali violacee ed una verde centrale) e da una banda a V che sottolinea la scollatura. Stringe la tunica, poco sotto il seno, una cintura annodata, gialla, frangiata, con motivi rilevati a fulmine ed a dischetto, con punto centrale rosso (forse ad indicare l’inserzione di una qualche pietra dura). I piedi, con calze verdi, calzano sandali con legacci verdi decorati con borchiette gialle. La chioma, a corte ciocche regolari che incorniciano la fronte, reca un diadema (o forse una ghirlanda) di fiori in giallo; ricordano l’oro la collana a girocollo con pendente, la bulla a testa di Medusa sullo scollo, le due armille sul braccio destro. Gli orecchini, a disco con pietre rosse, hanno un pendente a ghianda. Il fronte della cassa è decorato secondo un chiaro partito architettonico, generato forse dalla particolare ideologia funeraria etrusca (la tomba vista come casa del defunto), o forse, più semplicemente, mediatovi come elemento decorativo. E’ ripartito in quattro settori da cinque pilastrini scanalati con capitelli compositi, che sorreggono una fila di ovoli ed un listello piatto su cui è impresso il nome della defunta. I pilastrini inquadrano spazi rettangolari decorati con due rosoni a rilievo violacei e rossi, intercalati a due pàtere umbelicate dipinte di giallo. Il ritratto: come vedremo, l’iscrizione tracciata sul sarcofago al momento della sua esecuzione, venne poi sostituita, prima dell’uso effettivo, da un’ altra, con un diverso nome: il fatto rende ancorpiù evidente il problema dell’eventuale valore ritrattistico della figura sul coperchio. In effetti lungo e dibattuto è, in generale, il problema del ritratto, del suo nascere e fiorire e, soprattutto, di quando si possa parlare, per una testa, di ritratto nella “moderna” accezione del termine. Nella sua evoluzione sono state individuate le seguenti tappe: 1) ritratto intenzionale: il primo impulso al ritratto, che si manifesta nella sua forma più ingenua, attribuendo un nome determinato ad una immagine generica; 2) ritratto tipologico: la genericità dell’immagine si attenua, cercando di indicare con essa la classe di appartenenza del personaggio raffigurato (un re, un guerriero, un dio, una matrona), e la sua età (giovane, vecchio). La III e la IV tappa tendono ad imitare precisamente le fattezze individuali del soggetto, riproducendone veristicamente i tratti somatici (ritratto fisionomico) ed infine cercando di conferire ad essi un’ espressione psicologica che meglio connoti il personaggio: è il ritratto fisionomico, il ritratto come oggi lo concepiamo. Nel monumento, la caratterizzazione del volto è piuttosto scarsa e non sembra andare oltre la generica rappresentazione di una giovane matrona pomposamente recumbente sulla sua ricca kline, nello sfoggio della sua ricchezza. La notevole somiglianza del volto stesso con quello dell’analogo sarcofago di Seianti Tanunia conservato presso il British Museum di Londra, ci convince ad assegnarlo all’ambito del semplice “ritratto tipologico”. L’ iscrizione: larqia:seianti:s.i:sve.(impressa nell’argilla); ...ti Corpus Inscriptionum Etruscarum 1215. a: lar...lisa: niasa (dipinta sullo stucco che ha coperto la prima): vedi Impressa sul listello superiore della cassa prima della cottura, quando l’argilla era ancora cruda, l’iscrizione indica il nome della defunta, o forse il nome del personaggio che commissionò il sarcofago, senza poi usarlo. L’iscrizione, in effetti, risultava, al momento della scoperta, parzialmente riempita e ricoperta da uno strato di stucco (alcune lettere sono ancora mal leggibili) sul quale era stato dipinto un secondo nome, diverso dal primo, oggi quasi completamente scomparso. Poco chiaro per questo il reale rapporto tra la defunta seppellita nel nostro sarcofago e gli altri personaggi sepolti nella stessa tomba, sicuramente pertinente alla famiglia larcna. Il corredo: attorno al sarcofago furono rinvenuti i seguenti oggetti. Argento: craterisco in lamina; padella; doppio pettine; tre pàtere; tre spilloni; un cucchiaino per cosmetici; tre aghi (forse frammento di una fibula); un paio di pinzette; vetro: cinque pedine da gioco, di vario colore; alabastro: due anforischi; bronzo: una fiaschetta in lamina; un asse romano. Possiamo agevolmente distinguere tre gruppi di materiale: il vasellame da mensa miniaturizzato, gli oggetti da toeletta, la moneta. Proprio quest ‘ultima, presente nel corredo come obolus Carontis, cioè come offerta che la defunta elargirà al traghettatore degli Inferi al momento di esser trasportata nel mondo dei morti, ci fornisce un utile dato cronologico per la datazione della tomba: il monetiere che ha curato la sua coniazione è infatti M. Titinius, che sappiamo attivo a Roma tra il 189 ed il 180 a.C.. La sepoltura sarà dunque di poco posteriore a tale epoca, visto che la datazione tipologica degli altri oggetti di corredo non può scendere molto nel II sec. a.C. I ricchi oggetti da toeletta non fanno che completare, stavolta con l’ oggetto reale, la ricca parure già esibita dalla figura sul coperchio. Il vasellame da mensa, miniaturistico, rimanda al mondo del banchetto aristocratico: una delle manifestazioni tipiche del vivere gentilizio, esaltata nei cicli pittorici delle tombe di Tarquinia (Tomba del Triclinio, Tomba dei Leopardi...) come anche e soprattutto dalla figura sdraiata a banchetto dei grandi sarcofagi maschili ( cfr. quello dell’obesus ) e delle piccole urne cinerarie. Il particolare pregio del metallo con cui tali oggetti di corredo sono stati realizzati costituisce un’ulteriore prova della estrema ricchezza della defunta. Una ricca signora, dunque, debitamente onorata anche nell ‘ oltretomba: uno dei tanti indizi della particolare considerazione della donna nel mondo etrusco. Una considerazione spesso esagerata da certi moderni, specie influenzati dalla propaganda “scandalistica” della storiografia greca. Una società rigidamente androcentrica non poteva che stigmatizzare negativamente la libertà ad essa concessa, ancor più se questa lo era da un mondo economicamente in competizione, quale quello etrusco. Al di là di facili esagerazioni possiamo comunque riscontrare numerose prove di un diverso ruolo rivestito dalla donna etrusca rispetto ad altre civiltà antiche, assolutamente androcentriche. Un esempio tra tutti, quello offertoci dall’onomastica. Le formule onomastiche antiche citano il nome del padre, il patronimico; quelle etrusche citano talvolta anche il nome della madre, il metronimico (che però mai sostituisce il primo!). Si veda, come esempio, l’iscrizione tarquiniese CIE 5471: Larth Arnthal Plecus clan Ramthasc Apatrual..., cioè Larth, figlio di Plecus e di Ramtha Apatrui. Mentre la donna romana, inoltre, non possedeva un prenome, cioè un nome proprio, diverso dal nome familiare (ossia il gentili zio che, volto al femminile, la designava), la donna etrusca aveva invece il proprio prenome al pari dell’uomo. Il diverso rilievo della donna etrusca nell’ambito delle società antiche ci è poi confermato anche da altri indizi, anche storici: è l’etrusca Tanaquilla, moglie di Tarquinio Prisco, che, alla morte del marito, impone a Roma il regno di un sovrano ne appartenente alla linea dinastica, ne voluto da (almeno apparenti) forze politiche interne: Servio Tullio (vedi Livio, 1,34). La Lingua L’etrusco è una lingua costruita in un alfabeto di origine greca e affine all’alfabeto latino. Le incognite che ancora oggi la lingua etrusca presenta sono da attribuire alla sua estraneità rispetto ai gruppi linguistici noti. A detta degli antichi, tra cui lo storico Dionigi di Alicarnasso, la lingua parlata dagli Etruschi era diversa da tutte le lingue conosciute. Dopo la conquista romana, essa fu a poco a poco sostituita dal latino, fino ad uscire completamente dall’uso. Il presunto mistero Il materiale: entità e caratteristiche delle testimonianze superstiti Documentazione diretta Documentazione indiretta II processo interpretativo Alfabeto etrusco Piccolo vocabolario etrusco Trascrizione delle iscrizioni Iscrizioni indicanti alfabeti