L'alimentazione:
L’alimentazione Le fonti letterarie conservateci che trattino questi soggetti risultano davvero scarse; le notizie che abbiamo ci sono infatti riportate da autori greci e latini, i quali -colpiti in modo negativo dal “lusso” dell’aristocrazia etrusca - non possono considerarsi una fonte attendibile, anche perche risultano di molto posteriori al periodo di fioritura della civiltà etrusca. Posidonio di Apamea, per esempio, racconta che gli Etruschi apparecchiavano le loro tavole “ben” due volte al giorno: del resto, anche i Greci consumavano due pasti al giorno, ma il pranzo era molto frugale. Il dato archeologico, che in genere è così importante, nel caso dell’alimentazione non è direttamente determinante; infatti, solo recentemente gli scavi degli abitati sono stati affiancati da indagini paleonutrizionali; oltre a ciò, relativamente rari risultano gli avanzi di pasto rinvenuti. Comunque utili notizie possono essere dedotte dagli utensili ritrovati negli ambienti adibiti a cucina, ma soprattutto dagli affreschi che decorano le pareti di alcune tombe, soprattutto quelli della “Tomba Golini I” di Orvieto, che mostrano immagini relative alla preparazione del banchetto. Da un famoso brano dello storico Tito Livio (Historiae XXXVIII, 45) sappiamo che in Etruria si coltivavano copiosissime messi (in particolare grano e farro); esse dovevano costituire l’alimento-base sulla mensa di tutti i giorni, sia sotto forma di pani e focacce, che di minestre e zuppe. Dalla citata notizia di Livio, inoltre, possiamo indurre che i bovini fossero allevati non solo per la carne, ma anche perche necessari per il lavoro dei campi, soprattutto per l’aratura. Gli avanzi di pasto rinvenuti durante gli scavi ci testimoniano, d’altra parte, la presenza sulla tavola etrusca di altri animali domestici quali ovini, caprini e suini, in proporzioni diverse a seconda del tempo o luogo in cui ci si trovasse; altra fonte di alimentazione, inoltre, era la selvaggina, come ci testimoniano gli autori antichi e alcuni famosi affreschi (la citata “Tomba Golini I” di Orvieto o la “Tomba della Caccia e della Pesca” di Tarquinia). Per quanto riguarda l’alimentazione ittica, ancora più rari risultano (dalla ricerca archeologica) gli avanzi di pasto, a causa della deperibilità degli scheletri dei pesci e del guscio dei molluschi; rimangono, comunque, come testimonianza archeologica, ami da pesca, aghi e pesi da rete. Gli Etruschi dovevano conoscere diverse varietà ittiche diffuse nel Mediterraneo, come mostrano i cosiddetti “piatti da pesce” in cui appaiono raffigurate, sulla superficie esterna, numerose specie manne. L’alimentazione del mondo mediterraneo antico è condizionata, ovviamente, dai prodotti che la natura offre e le condizioni climatiche simili nel mondo greco, latino ed etrusco, hanno generato una dieta ed una cucina per molti versi assai simili tra loro. Per l’età preistorica si hanno dati scientificamente molto interessanti per il villaggio del Gran Carro di Bolsena, scoperto sotto le acque del bacino lacustre e databile attorno al IX secolo a.C, nella fase di passaggio dunque tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro. Il setacciamento dei fanghi che ricoprivano le antiche strutture, eseguito nel 1974, portò alla luce una rilevante quantità di noccioli di frutta selvatica tra cui corniolo (Cornus mas), prugna selvatica (Prunus spinosa) e prugna damascena (Prunus insititia), nocciolo (Corylus avellana) e ghiande (Quercus sp.), ed anche vite (Vitis vinifera) che presto, grazie alle conoscenze trasmesse dai navigatori provenienti dall’Egeo, sarebbe stata trasformata in vino e non consumata solo come frutta. Tra i cereali sono presenti cariossidi di farro (Triticum dicoccum), tra i legumi resti di fave (Vicia faba). I cereali ed i legumi potevano essere consumati abbrustoliti o macinati per farne frittelle e minestre; la frutta poteva essere consumata fresca o fermentata in bevande a scarso tenore alcolico. Tra i resti faunistici (scavi 1980) ricordiamo la presenza di numerose specie domestiche (68 % del totale dei resti ossei rinvenuti) e selvatiche (32 %). Sono stati segnalati resti di caprovini, suini, bovini, equini, cani; tra i selvatici cervo, cinghiale, capriolo ed orso bruno. I dati disponibili dagli scavi condotti dall’Istituto Svedese di Roma a San Giovenale (Blera) abbracciano un arco cronologico molto ampio che va dall’ età del Bronzo all’età romana: essi rivelano come attraverso i secoli il principale alimento siano stati i suini, gli ovini ed i bovini, talvolta integrati da esemplari cacciati come il cervo, il capriolo e la lepre. Se cerchiamo analogie con il mondo romano di cui si possiedono numerose notizie in più rispetto all’etrusco, apprendiamo che si tendeva al consumo soprattutto di suini, mentre i caprovini erano destinati alla produzione di latte e lana, i bovini al lavoro nei campi. La carne era arrostita su lunghi spiedi (in greco obeloi) che, in epoche premonetali, cioè quando ancora non si usavano monete e si ricorreva allo scambio di prodotti e di metalli a peso, costituivano nel Mediterraneo un elemento di scambi assai frequente. Ma poteva essere anche bollita in grandi calderoni da cui veniva estratta con uncini. A San Giovenale sono stati rinvenuti fornelli e pentole di terracotta che testimoniano la quotidiana vita dell’abitato: molti dei materiali archeologici provenienti soprattutto dagli abitati arcaici della Tuscia (San Giovenale ed Acquarossa) sono esposti in un’interessantissima mostra permanente presso il Museo Archeologico Nazionale di Viterbo (Rocca Albornoz). Lo scavo di un insediamento agricolo etrusco del IV - III secolo a.C. condotto dalla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale a Blera in località Le Pozze (scavi 1986-87), ha permesso il rinvenimento di 570 semi e noccioli di frutta, tra cui segnaliamo corniolo, nocciolo, ghiande di quercia, olivo (Olea europaea), vite, fico (Ficus carica), pero (Pyrus sp.) ed orzo (Hordeum sp.). Tra i resti di animali, presenti i suini, la capra, i bovini, le galline. Indagini paleonutrizionali, cioè sulle modalità alimentari del passato, condotte sulla popolazione etrusca, hanno rivelato che dal VII secolo a.C. all’età romana l’economia alimentare sia rimasta a base agricola; un consumo maggiore di carne e latticini, rilevabile dall’aumento di Zinco nelle ossa, si ha nell’età arcaica (VI secolo a.C.-inizio V secolo a.C.): con il passaggio all’età classica ed all’ ellenistica si nota una graduale diminuizione del consumo di prodotti di origine animale, forse conseguenza di quella forte crisi economica che avrà il suo inizio nel V secolo a.C. e che si protrarrà con la conquista romana.
La cucina etrusca Le raffigurazioni pittoriche della tomba Golini I di Orvieto (l’antica Volsinii) databili alla seconda metà del IV secolo a.C., ci offrono una visione interessante delle attività di cucina di un’importante famiglia dell’aristocrazia: sulle pareti sono rappresentati i servi che fanno a pezzi la carne con una piccola ascia, altri che preparano i cibi sotto lo sguardo attento di una donna: preparano focacce, cuociono le cibarie nel forno, mesciono le bevande nelle brocche. Nelle altre pareti appaiono i loro padroni, seduti o sdraiati sulle klinai, i letti tricliniari del banchetto, in compagnia delle proprie donne dalle ricche vesti, illuminati da alti candelieri di bronzo lucente, serviti da schiavi nudi ed allietati da suonatori di lira e tibicines (flauti doppi). Ma cosa si mangiava nell’antica Etruria? Oltre alla frutta e verdura di cui abbiamo fatto cenno, quali erano le pietanze, i cibi preparati ? Nei tempi più antichi erano frequenti le minestre di cereali e legumi, come le gustose zuppe di verdura: ne è un ricordo eccezionale l’acquacotta, uno dei piatti della tradizione culinaria viterbese. Le sfarinate di cereali erano utilizzate per fare frittelle e focacce. La carne era bollita ed arrostita: sono frequenti nei corredi delle tombe gli alari, gli spiedi e le pinze per maneggiare i tizzoni di brace. Condimento ideale per ogni cibo era l’olio d’oliva, di qualità eccellente, esportato in tutto il Mediterraneo come testimonia il rinvenimento di anfore etrusche: anche oggi la qualità dell’ olio viterbese lo denota come prodotto tipico, così come il vino. La mancanza di una letteratura specifica non ci aiuta nella conoscenza di ricette e preparazioni tipiche, lontane dalla raffinata e forse confusionaria cucina d’età romana: ma non è difficile immaginare che i piatti più tipici della tradizione gastronomica toscana e viterbese, così legati alla sana e semplice cultura contadina, siano il perpetuarsi della cucina etrusca.
Il vino Già nel VII secolo a.C. la vite e l’olivo erano coltivati intensivamente in Etruria ma, per quest’ultimo, la produzione non fu mai considerata importante dagli autori antichi; del vino etrusco, invece (anche se in senso talvolta negativo), scrivono sia Orazio che Marziale. Il vino bevuto nell’antichità era molto diverso da quello d’oggi: denso, fortemente aromatico, ad elevata gradazione alcolica. Il primo mosto ottenuto dalla vendemmia veniva in genere consumato subito, mentre il restante veniva versato in contenitori di terracotta con le pareti interne coperte di pece o di resina. Il liquido veniva lasciato riposare, schiumato per circa sei mesi e a primavera, infine, poteva essere filtrato e versato nelle anfore da trasporto. Il liquido così ottenuto non veniva bevuto schietto ma mescolato, all’interno di crateri, con acqua e miele, e travasato nelle coppe dei cornrnensali, servendosi di attingitoi e sìmpula. Sulla mensa, il vino era contenuto in brocche e vasi a doppia ansa (stàmnoi), mentre per l’acqua si utilizzavano spesso piccoli secchi, denominati sìtule. Non potevano mancare, in una cucina ben attrezzata, i colini. Questi instrumenta sono presenti in tutta l’area mediterranea, dall’Egeo alla Gallia Meridionale, a iniziare dal VI secolo a.C. fino all’età romana imperiale. Gli esemplari più antichi (II millennio a.C.) sono stati trovati in Grecia, nell’ isola cicladica di Santorino, realizzati in terracotta. Potevano essere ottenuti anche in altro materiale (argento, bronzo, rame, ceramica) e diverse risultano le varianti della forma a seconda dell’uso. Alcuni colini appaiono provvisti di un imbuto (nome latino infundìbulum), collegato al colino stesso, altri ne sono privi, altri infine si denotano semplicemente per un “bulbo” ricavato al centro della vasca. Alcuni di essi rivelano, sul lato opposto al manico, un sostegno rettangolare orizzontale destinato a reggere il colino stesso sull’imboccatura del vaso in cui veniva versato il liquido; in un secondo momento, il colum poteva essere lasciato appeso all’orlo del recipiente, pure tramite questa sorta di gancio. I colini provvisti di imbuto venivano usati per filtrare il vino e altri liquidi in tipi di recipiente contraddistinti da strette imboccature.
Fornelli, stoviglie e altri utensili per cucina Gli Etruschi, di solito, non avevano, all’interno delle loro abitazioni, un vano adibito a cucina quale lo intendiamo oggi; spesso si cuoceva all’aperto, ma comunque esistevano sistemi di cottura che utilizzavano dei particolari “fornelli”. Ne esistono sostanzialmente di tre tipi, provvisti ognuno di relative varianti: il tipo più antico è di forma cilindrica e munito sulla superficie superiore di una piastra forata e, sulla parte inferiore, di un’ apertura per l’alimentazione del fuoco; verso la fine del VII sec. a.C. compare un secondo fornello semicilindrico, a forma di ferro d cavallo, con tre parti sporgenti verso l’interno per sostenere la pentola; c ‘è infine un ultimo modello, simile a una piccola botte aperta per appoggiarvi il recipiente per la cottura e, in quella inferiore, per il carico del combustibile. Il secondo tipo era già conosciuto nella Magna Grecia e doveva risultare migliore del primo modello, in quanto permetteva una cottura più veloce. In diverse zone dell’Etruria, per esempio a Poggio Civitate, Murlo (SI), sono state trovate specie di campane di terracotta provviste di un ‘ansa alla sommità, sotto le quali venivano posti i cibi da cuocere; intorno veniva messa la brace per consentire la cottura, simile dunque a quella sub testo dei Romani. Altri utensili per cuocere i cibi sono gli spiedi (in greco obelòi), usati per arrostire la carne. Li troviamo talvolta conservati nelle tombe, forgiati in bronzo o ferro, lunghi anche 1 m e associati a graffioni. Quest’ultimo tipo di strumento ha più volte attirato l’attenzione degli studiosi, che hanno tentato di definirne l’uso. Prevalgono oggi due interpretazioni: la prima tende a identificare questo oggetto con un porta-fiaccole, i cui rebbi sarebbero stati destinati a sostenere materiale combustibile; la seconda, avvalorata anche da fonti letterarie (strumenti simili sono infatti descritti, con tale uso, dalle testimonianze romane, contraddistinti dal nome latinizzato di hàrpago), lo considera un utensile domestico, anzi culinario, usato per infilzare e cuocere pezzi di carne, recuperarli dai calderoni e togliere pietanze “dal fuoco”. Nel medioevo, per es., si usavano uncini per impedire che i cibi in cottura venissero a galla. Tra gli instrumenta domestica vanno anche annoverate le “teglie” (simili nella forma alle odierne padelle), alcune del tipo monoansato, in bronzo. Si tratta di utensili domestici adibiti a contenere i cibi in fase di cottura e chiamati anche pàtere o bacinelle, di cui esistono diverse varianti a seconda del modo in cui risultino forgiati orlo e ansa. La medesima classe di recipiente si trova replicata, nel corso del III secolo a.C., nella cosiddetta “Ceramica a Vernice Nera” di produzione volterrana, che ispira le sue fonne a prototipi di vasi in metallo, ottenendo così contenitori a un costo inferiore di quello raggiunto dagli originali. Un altro oggetto d’uso domestico che compare tra le suppellettili da cucina è la grattugia, in genere ricavata in bronzo, ma talvolta anche in metallo pregiato. Il termine latino ràdula è usato da Columella (De re rust. XII, 15,5) per un oggetto che doveva servire a raschiare la vecchia pegola dai vasi, prima di spalmarvela nuovamente. Non siamo certi, tuttavia, che si tratti del medesimo oggetto, in quanto Columella non lo descrive. Omero già la menziona (Iliade XI, 638), usata per grattugiare il fonnaggio; era infatti usata per fare il kykèion, bevanda composta da vino forte, orzo, miele e fonnaggio grattugiato, bevuta dagli eroi omerici. Non sappiamo se anche gli Etruschi avessero una bevanda simile.