STUDIO SUGLI (ALFABETI E LETTERE) "ETRUSCHI"
INCOMINCIAMO CON L'ALBERO DELLE
LINGUE
PER APPRENDERNE UN PO' LA STORIA IN GENERALE.
DI SEGUITO ABBIAMO ALCUNE TABELLE CHE CI MOSTRANO
COME E' COMPOSTO L'ALFABETO ETRUSCO
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Il presunto mistero Contrariamente a quanto molti ancora suppongono, i documenti della lingua etrusca sono tutt’altro che ‘indecifrati’ o ‘indecifrabili’: scritti con un alfabeto di derivazione greca, di tipo euboico (‘rosso’, cioè occidentale, secondo la divisione stabilita da A. Kirchhoff delle scritture dei Greci), fin dal secolo scorso si leggono senza nessuna particolare difficoltà; ma anche in precedenza, salvo qualche dubbio relativo a singoli segni, l’ epigrafia aveva rappresentato il capitolo forse più solido nell’intero panorama dell’etruscologia. Sappiamo dunque che già nel tardo VIII secolo a.C. gli Etruschi erano certamente in possesso d’un alfabeto, introdotto in Italia centrale da coloni euboici dell’isola d’Ischia e comprendente ventisei lettere, come si desume da una tavoletta d’avorio, dalla finalità evidentemente scolastica, ritrovata a Marsiliana d’Albegna (Grosseto). Ma quattro lettere non sono effettivamente impiegate (la b, la d, la s sonora e la o, che si confondeva col suono u), mentre per il suono f dal VI secolo a.C. è introdotto un segno apposito. La scrittura procede normalmente da destra verso sinistra; assai più raramente, da sinistra a destra ovvero con andamento bustrofèdico, cioè alternato riga per riga. In epigrafi meno antiche si possono incontrare puntini di separazione tra le parole. In realtà il problema è un altro ed è un problema d’interpretazione linguistica, non di decifrazione epigrafica: quello d’intendere il significato dei testi, redatti in una lingua che non sembra imparentata con nessun altra delle antiche o moderne proposte alla comparazione, e di elaborare, possibilmente, una descrizione grammaticale, morfologica e sintattica, di questa lingua, che è poi la condizione stessa della sua conoscenza effettiva. E, da tale punto di vista, bisogna ammettere che, nonostante lo sforzo grandioso di molte generazioni di studiosi, i risultati sicuri permangono pochi e settoriali; e ciò non per insufficienza d’impegno o per inadeguatezza dei metodi adottati, ma per la qualità medesima dei documenti disponibili. Infatti le iscrizioni etrusche, anche se numerose (circa 10.000), vengono in grandissima parte da necropoli; sono perciò di carattere funerario e generalmente molto brevi. Esse ci danno perciò soprattutto, se non soltanto, nomi di persona e indicazioni anagrafiche elementari, pur essendo in gran parte abbastanza facilmente (ma talvolta approssimativamente) traducibili. I pochissimi testi etruschi più complessi - un rituale scritto su un rotolo di tela poi utilizzato per avvolgere una mummia, ora al Museo di Zagabria; una tegola iscritta, proveniente da Capua, a Berlino; il Cippo di Perugia - suscitano invece gravi difficoltà nell’interpretazione, anche perché non si conoscono per il momento ampi documenti bilingui a carattere di traduzione letterale (del tipo della Stele di Rosetta). Ciononostante la pazienza degli indagatori conduce pian piano a singole acquisizioni che, pur nei limiti quasi invalicabili imposti dalla quantità e dalla qualità dei documenti (ai testi epigrafici bisogna aggiungere le parole etrusche riportate dagli scrittori antichi), possono organizzarsi in un disegno generale abbastanza ben definito. Dopo l’esperienza dei metodi ‘etimologico’ (che presupponeva la parentela dell’etrusco con altre lingue conosciute) e ‘combinatorio’ (rivolto ad analizzare solo per via interna la ‘combinazione’ degli elementi costitutivi del testo), in anni recenti hanno trovato sviluppo due nuovi modi d’accostare il problema linguistico: il cosiddetto ‘bilinguismo’, promosso specialmente da Massimo Pallottino, che integra l’analisi combinatoria con l’uso di fonti interpretative esterne (per esempio, il confronto con formule di dedica latine e greche); e lo ‘strutturalismo’ di Helmut Rix, che reputa sufficiente una descrizione della ‘struttura’ dei testi a chiarirne anche il significato. Della grammatica dell’etrusco non è qui il caso di parlare diffusamente, perché c’introdurrebbe in un terreno di ardua e complicata spiegazione. Preferiamo dare al lettore l’esempio di una declinazione di sostantivo ormai sufficientemente accertata (secondo gli schemi di lingue più note, come il greco e il latino e quello di un ‘epigrafe funeraria abbastanza traducibile. Ecco il modello di declinazione del sostantivo methlum (che significa ‘nome ‘): methlumes (‘del nome’); methlumth (‘nel mome’, con valore locativo); methlumeri (‘al nome’). Ed ecco invece l’esempio di epigrafe funeraria (si tratta dell’iscrizione incisa su un sarcofago da Norchia e riportata sia nel Corpus Inscriptionum Italicarum di A. Fabretti, N. 2070, sia nel nuovo Corpus Inscriptionum Etruscarum, N. 5874): Arnth Churcles [Arnth Churcle], Larthal [di Larth] clan [figlio] Ramthas Nevtnial [(e) di Ramtha Nevtni], zilc parchis [pretore] amce [fu] marunuch [appartenente al collegio dei ‘maroni’] spurana [urbano] cepen [sacerdote] tenu [ha esercitato], avils [di anni] machs [cinque] semphalchls [(e) settanta] lupu [è morto].
Il materiale: entità e caratteristiche delle testimonianze superstiti Si è già detto che uno dei fondamentali fattori negativi per la conoscenza della lingua etrusca (e potremmo aggiungere più generalmente della civiltà etrusca) è costituito dalla ristrettezza della documentazione. Tuttavia questa documentazione è tutt’altro che trascurabile: si tratta infatti del più ingente complesso di testimonianze scritte di una lingua antica parlata in Italia, e nell’intero Mediterraneo centro-occidentale, a parte il greco, il fenicio-punico e il latino; in età arcaica gareggia per entità con i resti epigrafici di queste stesse lingue; ed è in continuo aumento. Proprio il flusso delle nuove scoperte ravviva la speranza che il futuro, anche prossimo, possa riservarci ulteriori sorprese. È più che probabile che il sottosuolo etrusco nasconda ancora un ricco patrimonio di iscrizioni. Non si può escludere che un’ attenta indagine nelle aree dei maggiori centri urbani porti al ritrovamento di testi epigrafici di carattere pubblico, storico-commemorativo o giuridico eventualmente redatti in etrusco e in latino (ciò che è ben possibile per le fasi più recenti dell’Etruria sottomessa o federata a Roma). Rimarrà naturalmente comunque l’incolmabile lacuna dell’assenza di testi letterari, per cui ci è preclusa la possibilità di conoscere l’etrusco alla stessa stregua delle altre lingue del mondo classico. In teoria documenti letterari etruschi potrebbero scoprirsi nel futuro in papiri dell’Egitto o di Ercolano (se si tien conto del già avvenuto miracolo - che di un vero miracolo dobbiamo parlare - del rinvenimento di un testo etrusco sulle bende di tela di una mummia egiziana); ma si tratta purtroppo di possibilità tanto tenui e remote da potersi definire chimeriche.
Documentazione diretta Le testimonianze che attualmente possediamo aifini della conoscenza della lingua etrusca si distinguono in dirette e indirette. Testimonianze dirette sono i testi: in gran parte editi nel C.I.E.. in altre raccolte e rassegne specifiche, ed in varie pubblicazioni monografiche e periodiche; alcuni pochi ineditì (soprattutto quelli che continuamente vengono in luce, nella fase che segue immediatamente la loro scoperta). Si tratta di materiale tutto di carattere epigrafico, cioè di iscrìzioni sopra monumenti od oggetti di scavo, salvo i frammenti del libro della mummia di Zagabria, che ha tuttavia anch’esso una provenienza archeologica. Quest’ultimo documento è di importanza eccezionale non soltanto per la civìltà etrusca, ma anche più generalmente per le antichità classiche, trattandosi dell’unico libro sacrale su tela (liber linteus) che ci sia stato conservato per il mondo greco ed italico-romano. Aveva originariamente la forma di un panno rettangolare ripiegato, quale è riconoscibile in alcuni monumenti funerari etruschi. Fu poi tagliato in strisce ed impiegato per avvolgere la mummia di una donna egiziana, di età tolemaica o romana, scoperta probabilmente nel medio Egitto (ma il luogo di ritrovamento è incerto). Questa utilizzazione, nella quale andarono perduti importanti frammenti del testo originario, è senza dubbio secondaria; ignoriamo quali precedenti circostanze abbiano determinato la presenza di un libro religioso etrusco in Egitto. La mummia fu portata in Europa da un viaggiatore croato e poi dònata al Museo Nazionale di Zagabria, dove J. Krall riconobbe la scrittura delle fasce come etrusca. Riaccostando tra loro queste bende, si è potuto ricostruire un testo scritto entro i limiti di almeno dodici colonne verticali: esso consta attualmente di circa 1200 parole più o meno chiaramente e completamente leggibili, alle quali si può aggiungere almeno un centinaio di altre parole che si ricostruiscono dal contesto. Data la frequenza delle ripetizioni, il numero delle parole sicure diverse fra loro si riduce a poco più di 500. Comunque il libro di Zagabria è senza paragone il più lungo ed il più importante di tutti i documenti etruschi finora in nostro possesso. Le iscrizioni, scoperte soprattutto nell’Etruria tirrenica, campana e padana - in minor numero o eccezionalmente nel Lazio, in territorio umbro e fuori d’Italia (Africa, Francia meridionale) -, sono incise o dipinte sopra elementi architettonici, pareti di tombe, cippi, sarcofagi, urne, tegole, statue, arredi, laminette metalliche, vasi, ecc. Esse ammontano ad oltre diecimila; ma solo pochissime sono di entità rilevante. Tra queste alcune hanno il carattere di documenti autonomi non legati alla natura dell’oggetto, nel senso cioè che il loro supporto mobile ha la funzione di una specifica superficie scrittoria (non diversa da quelle di materiale deperibile come i volumi di tessuto o di pelle, le tabelle e i dittici lignei, ecc., che vediamo frequentemente riprodotti nei monumenti figurati etruschi, ma che nella realtà sono andati perduti a causa del nostro clima, mentre il clima secco dell’Egitto ha salvato illiber linteus di Zagabria). La più lunga è inscritta sopra una lastra di terracotta in forma di tegola proveniente da Capua e successivamente passata ai Musei di Berlino: esso consta di 62 righe conservate, divise in dieci sezioni, con quasi 300 parole leggibili; la seconda parte del testo è molto rovinata; la scrittura è tracciata a righe alternativamente rovesciate in modo da imitare il procedimento detto bustrofedico. Un testo graffito su ambedue le facce di un lungo nastro di lamina di piombo, purtroppo trovato in frammenti, è venuto recentemente alla luce in un piccolo santuario presso Santa Marinella (C. I. E. 6310): vi si leggono tracce di almeno 80 parole, di cui solo una quarantina leggibili integralmente; ed è inciso con lettere di proporzioni miniaturistiche. Una laminetta lenticolare anch’essa di piombo rinvenuta a Magliano e conservata nel Museo Archeologico di Firenze (C. I. E. 5237) è caratterizzata da una iscrizione incisa, sui due lati, a spirale con movimento dal margine esterno verso il centro: vi si contano almeno 70 parole (talvolta non è facile distinguere se un gruppo di lettere contiene una o due parole). Un carattere del tutto particolare, per la loro materia e la loro importanza linguistica e storica, hanno infine le lamine d’oro scoperte nel santuario di Pyrgi, già più volte citate, di cui due scritte in etrusco una in fenicio (C.I.E. 6314-6316); l’etrusca più lunga, di 15 righe e 36 o 37 parole, corrisponde a quella fenicia (nel senso di una bilingue, come già sappiamo); mentre la più breve è di 9 righe e 15 parole). Non mancano altri documenti di un certo sviluppo su lamine metalliche, come le tabellae defixionis (cioè consacrazioni a divinità infere di persone che si vogliono maledire: specialmente quelle di Monte Pitti C.I.E. 5211 e di Volterra C.I.E. 52) e alcune di contenuto non precisabile. Fra i titoli propriamente epigrafici eccelle il cippo di pietra, pro-babilmente confinario, del Museo di Perugia (C.I.E. 4538), che pre- senta su due facciate una lunga e bella iscrizione scolpita di 46 righe e 136 parole. Tra le iscrizioni funerarie alcune sono estese come quella del sarcofago di Laris Pulenas del Museo di Tarquinia (C. I. E. 5430), tracciata sul rotolo aperto esibito dal defunto scolpito sul coperchio, con 9 righe e 59 parole; ma ne esistono anche altre non meno lunghe e rilevanti, benche più rovinate, dipinte sulle pareti delle tombe di Tarquinia. Esistono inoltre diverse epigrafi di sepolcri, sarcofagi, cippi che presentano alcune righe di testo ed una certa varietà di parole; ma la grandissima maggioranza consta di poche parole ed è redatta secondo formule fisse; non mancano alcune brevi bilingui etrusco-latine. Le iscrizioni dedicatorie su oggetti mobili si distinguono in un gruppo arcaico, con proprie formule ed il nome del dedicante, e in un gruppo più tardo in cui è più frequente il nome della divinità; ma, tolte le leggende piuttosto estese di alcuni vasi arcaici, sono anch’esse generalmente brevi e stereotipe. Dobbiamo ricordare infine le innumerevoli leggende esplicative delle figurazioni tombali, dei vasi dipinti, degli specchi, ecc., le iscrizioni su monete, proiettili di piombo e altri oggetti minimi, le marche di fabbrica, in gran parte con nomi propri. Si aggiungano, per la loro singolarità, i famosi dadi da giuoco di avorio detti provenire da Tuscania e conservati nella Bibliothèque Nationale di Parigi, con parolette (certamente numerali) su ciascuna delle sei facce.
Documentazione indiretta Fonti indirette per la conoscenza dell’etrusco sono: 1) le glosse, ed altre informazioni offerte dagli scrittori classici e postclassici; 2) gli elementi etruschi passati nel latino e gli elementi comuni etrusco-italici; 3) gli elementi etruschi sopravvissuti nella toponomastica; 4) i supposti frammenti di versioni latine da testi originari etruschi. Le glosse sono parole etrusche delle quali è data la traduzione latina o greca: citate occasionalmente in testi di autori classici o inserite in veri e propri dizionari. Se ne contano una sessantina; ma il loro valore come elementi traduttori esterni, ai fini dell’interpretazione dell’etrusco, è piuttosto limitato: proprio come nel caso delle bilingui etrusco-latine. Glosse di carattere vario ci provengono da Varrone (de lingua latina), da Verrio Flacco (de verborum significatione), da Isidoro (Etymologicum) e specialmente nel Lessico di Esichio. A speciali categorie di vocaboli appartengono le glosse etrusche con nomi di piante medicinali e con nomi di mesi (Papia, Liber Glossarum di Leida) che pare si ritrovino anche nei testi etruschi: es. Aclus = giugno, cfr. nel testo di Zagabria. Osservazioni di carattere fonetico e grammaticale sull’etrusco, di scarsissimo valore, risalgono a Varrone, all’ Ars de orthographia di M. Cappella. Per alcune parole l’origine etrusca è esplicitamente testimoniata dagli scrittori classici (mantisa. histrio. /ucumo. atrium. ecc.); per altre è ipotetica e si può anche pensare ad una formazione analogica, cioè a parole latine che imitino nella terminazione i derivati etruschi, come pure a relitti del generale substrato preindoeuropeo d’Italia, piuttosto che ad imprestiti dall’etrusco nella sua fase storica. Preferibilmente si riterranno o sospetteranno etrusche quelle parole latine di etimologia oscura e di terminazione etruscheggiante che si riferiscono al linguaggio tecnico del culto, delle istituzioni civili e militari, della tecnica, ecc. : teniamo presente il fortissimo influsso culturale esercitato dall’Etruria su Roma primitiva in questi settori. Ne mancano esempi di vocaboli per i quali l’etrusco è stato probabilmente intermediario tra il greco e il latino: per es. groma (nome di uno strumento di orientazione e misurazione dei campi). Non è da escludere neanche qualche limitato influsso dell’etrusco sulla fonetica e sulla morfologia del latino. Il problema in tutto il suo complesso meriterebbe un nuovo più attento esame, anche ai fini dell’ermeneutica etrusca. Ancora meno chiara è la questione di eventuali dirette sopravvivenzelessicali etrusche in volgari italiani; mentre l’ipotesi di una derivazione etrusca dell’aspirazione toscana è accettata da diversi linguisti. La difficoltà fondamentale consiste soprattutto nel distinguere tra i diversi strati e le diverse aree di diffusione dei toponimi preindoeuropei: ad esempio tra voci toponomastiche di tipo «mediterraneo» o «paleoeuropeo» generale, diffuse anche nell’Italia centrale (come i derivati dalle basi carra-, pala-, gav-, ecc.), e voci toponomastiche che invece derivano dall’etrusco di età storica direttamente o attraverso una forma latina come alcuni nomi di città (per es. Bolsena da Volsinii, etr. Velsna-). Vanno infine menzionati gl’ipotetici esempi di versioni in latino dall’etrusco. Già sappiamo che il corpo dei libri sacri etruschi fu tradotto o compendiato in latino. Nelle congerie di riferimenti indiretti, riassunti, rifacimenti di scritti etruschi, dei quali qualche eco è giunta fino a noi, si notano alcuni brani che ci interessano non soltanto per la conoscenza della letteratura e della civiltà etrusca, ma anche per le forme di espressione che potrebbero riflettere una particolare struttura di linguaggio: per esempio il frammento tratto dai Libri Vegoici e riportato dai Gromatici con insegnamenti della Lasa Vegoia sulla divisione dei campi.
II processo interpretativo È evidente che il nostro interesse si concentra soprattutto sulla documentazione diretta, cioè sui testi etruschi, mentre le fonti indirette potranno se mai considerarsi come dati accessori e ausiliari. Il problema che intendiamo affrontare in modo specifico a questo punto è dunque essenzialmente quello dell’interpretazione dei testi (o «ermeneutica» in senso proprio, volendo usare il termine tradizionalmente diffuso negli studi etruscologici), cioè della comprensione del significato dei documenti, indipendentemente dall’obiettivo della conoscenza della struttura della lingua dei cui risultati si darà conto nel capitolo successivo. Il punto di partenza è la constatazione ormai pacificamente e incontrovertibilmente acquisita in sede scientifica (contro ogni residua disinformazione in materia) che esiste da tempo una generale e basilare capacità di leggere e capire, individuandone la qualità e il senso o il contenuto certo o approssimativo, ogni testimonianza scritta etrusca che costituisca l’illustrazione di monumenti figurati (nomi di divinità e di eroi, di persone, ecc.), o ricordi i defunti menzionandone la genealogia, l’età, la qualità o le azioni, o indichi l’appartenenza e la destinazione di singoli oggetti con particolare riguardo alle dediche votive, e così via; mentre per alcuni testi più lunghi di carattere rituale (è il caso specialmente del manoscritto della mummia di Zagabria, della tegola di Capua, della laminetta di piombo di Magliano si pensi al Cippo di Perugina) possiamo accostarci alla comprensione complessiva del valore del documento, talvolta alla sua articolazione in settori, paragrafi o frasi, e perfino alla interpretazione di singoli brani. Il fondamentale ostacolo a maggiori approfondimenti eprecisazioni è rappresentato dalla incertezza dei valori semantici di una parte notevole del lessico etrusco, cioè del significato di molte parole e radici, talvolta anche ricorrenti con frequenza e perciò sicuramente riferibili a concetti importanti (per esempio la serie di voci diffusissime ar, ara, aras, arce, art?, ecc. , di cui, nonostante tante autorevoli e motivate ipotesi, non crediamo ancora possibile considerare accertato il senso); ed in questi casi occorrerà onestamente confessare la nostra ignoranza. Di molte parole si sa la rispondenza a concetti generici senza possibilità di precise oggettivazioni: così nei testi rituali ricorrono termini con funzione verbale dalle basi hec-, sac-, acas-, ecc. , indicanti azioni di culto, più o meno nel senso di offrire, porgere, sacrificare, consacrare, forse invocare; mentre termini come fase, cleva, tartiria, acazr, debbono corrispondere a singoli tipi di cerimonie e di offerte a cose concretamente offerte, sacrificate o donate, per altro non distinguibili. Si sa d’altra parte che la nozione generale di offrire, donare, dare (nell’ambito sacro, eventualmente votivo, ma anche presumibilmente in quello profano) è espressa con assoluta certezza dai «verbi» mul-. tur-. al-: il cui reciproco rapporto, di diversa sfumatura o di diverso impiego preferenziale nel tempo o di pura sinonimia, resta tuttavia incerto. Il fatto è che per «tradurre» esattamente non poche parole etrusche occorre, od occorrerebbe, conoscere la realtà dei concetti che ad essi si sottendono sul piano religioso, istituzionale, sociale, tecnico: problema, dunque, non tanto linguistico quanto piuttosto storico-culturale. Ma i nostri sforzi per intaccare questo grosso nucleo di oscurità del lessico etrusco, per precisare il significato di parole e di frasi vagamente intelligibili, e conseguentemente per interpretare sempre più puntualmente e sempre in maggior numero i testi, sono in continuo, seppur lento e limitato, progresso, soprattutto a seguito dell’ininter- rotto acquisto di nuovo materiale di studio, divenuto particolarmen- te sostanzioso nel corso degli ultimi anni, come già si è rilevato nel capitolo precedente. Si può citare come esempio tra i più istruttivi il caso della scoperta della già menzionata iscrizione ceretana «dei Claudii», che con l’espressione apa-c ati-c, manifestamente significante «e il padre e la madre» ( = latino paterque materque), conoscendosi già con certezza il valore ati = «madre» e l’uso della copulativa enclitica -c, ha consentito di accertare definitivamente il senso della parola apa = «padre», in precedenza vagamente sospettato e per così dire avvicinato e circuito, ma rimasto nella nebulosità dell’ipotesiI6. Analoga considerazione, come ben s’intende, vale per quanto si è detto a proposito della prova del valore ci = «tre», fornita dalla corrispondenza bilingue delle lamine di Pyrgi. I risultati finora conseguiti si estendono naturalmente dal signi- ficato delle parole alle loro funzioni e correlazioni, che danno senso ai contesti. A questo proposito esistono alcune certezze elementari, come il rapporto di appartenenza o discendenza indicato da un suffisso di «genitivo» nelle usuali formule onomastiche: Larces clan «di Larce figlio». Diremo che esistono due soli principi di evidenza in assoluto: 1) riconoscere comechessia il significato e la funzione di singole parole; 2) constatare la natura del documento e, conseguentemente, desumerne il contenuto complessivo. Si tratta di approcci fondamentalmente diversi e, nei loro sviluppi, addirittura opposti. Il primo è basato su dati analitici, dai quali, attraverso un’indagine linguistica strutturale e combinatoria, si tende alla ricomposizione e ricostruzione del senso generale del testo (o del contesto). Il secondo, al contrario, considera i testi sinteticamente per quanto essi possano voler dire, partendo dalle loro caratteristiche archeologiche e affinità culturali, per poi discendere ai particolari della valutazione linguistica dei singoli elementi che li compongono. Le prime parole riconosciute e riconoscibili dell’etrusco sono i nomi propri. Essi costituiscono di fatto l’enorme maggioranza delle parole presenti nelle iscrizioni etrusche ed hanno rappresentato il fondamento iniziale di ogni loro tentativo d’interpretazione. Per quanto riguarda l’onomastica personale appariva ed appare immediata l’identità formale con elementi onomastici latini, prenomi (Marce: lat. Marcus) e nomi gentilizi (Vipi: lat. Vibius); si è constatata altresì un’analoga costruzione con formula bimembre (prenome e gentilizio) o trimembre (prenome, gentilizio, cognomen) e presenza del patronimico. Con altrettanta facilità si riconoscono nomi divini comuni al latino e all’etrusco (Menerva: lat. Minerva. Selvans: lat. Silva- nus) e nomi greci di divinità e personaggi mitologici (Alexsantre, Elina, Elinai). Aggiungiamo i toponimi ravvisabili dalla loro forma latina (Pupluna: lat. Populonia) e loro derivati con valore di etnici (rumax «romano» da Ruma- «Roma»). Diverso è il caso per quel che riguarda tutto il resto del patrimonio lessicale etrusco, estraneo all’onomastica, cioè le parole comuni o appellativi. È qui che s’incontrano le difficoltà di fondo. Non possiamo contare su strumenti diretti di traduzione se non per le scarse e malsicure nozioni fornite dalle glosse. Si vorrebbe perciò ricorrere al confronto con radici e formazioni di parole di altre lingue, supponendo una loro origine comune, nel senso del vecchio metodo etimologico. Passiamo ora all’esame dell’altra possibilità di cogliere l’espressione di un testo, o di parte di esso, nella sua globalità partendo da indizi esterni. Il tipo del monumento o dell’oggetto inscritto è stato sempre, fin dall’inizio, una guida sicura per delimitarne il senso: tanto ovvia e istintiva da restare per lungo tempo sottintesa (se ne è avuta coscienza critica soltanto con la teorizzazione del metodo bilinguistico). È evidente che l’epigrafe di un sarcofago o di un loculo tombale non può che riferirsi ad un defunto, formulandosi presumibilmente nello stesso schema dei testi funerari latini: ciò che era stato avvertito già a partire dalle osservazioni degli eruditi del Settecento, con tutte le conseguenze relative (onomastica personale, rapporti e termini di parentela come clan = figlio, sex = figlia, e così via). Altrettanto evidente è che sugli oggetti mobili (vasi, statuette di bronzo, ecc.) debbono necessariamente comparire annotazioni di proprietà o di destinazione o, soprattuto se il luogo di provenienza è un santuario, dediche a divinità, implicanti la presenza del nome dell’offerente, dei termini esprimenti l’azione dell’offerta, eventualmente del nome divino, come nelle analoghe iscrizioni greche o latine. Ancora più evidente è che le parole scritte accanto a figure di divinità o di eroi, per esempio in scene di specchi o in pitture, sono didascalie che notificano il personaggio (cosiddette «bilingui figurate»). Le parolette incise su ciascuna delle sei facce dei dadi da giuoco «di Tuscania» rappresentano senza il minimo dubbio le prime sei unità numerali. Ogni scarto da questi elementi di certezza non può che condurre ad interpretazioni aberranti. L’evidenza «obiettiva» desunta dall’accostamento di testi etruschi a testi di altra lingua in ambienti culturalmente vicini e per casi di dimostrabile o presumibile af- finità di contenuto può estendersi, sia pure con cautela, anche a documenti per i quali sono meno significativi gl’indizi offerti dalla natura archeologica dell’oggetto o del luogo, quale è soprattutto il libro su tela di Zagabria, le cui formule rituali sono state studiate tentando di stabilire paralleli con formule rituali umbre delle Tavole Iguvine, o latine degli Atti dei Fratelli Arvali, del de agricultura di Catone, e altre. Richiami culturali e storici valgono talvolta a legittimare confronti anche più lontani, come quello fra il titolo di magistratura etrusca zilafh mexl rasnal (ricorrente con lievi varianti formali in iscrizioni del IV-III secolo a.C.) e il titolo onorifico latino di età romana imperiale praetor Etruriae o praetor (Etruriae) quindecim populorum, di cui si è già parlato: esempio significativo di una rispondenza generale che dà l’impressione di un vero e proprio «calco linguistico», ma che è più difficile analizzare nel senso e nel rapporto delle singole parole dei populi etruschi. Lo stesso «principio dei testi paralleli» come fonte primaria d’interpretazione globale vale ovviamente, per le vere e proprie bilingui. Le quali tuttavia, salvo il caso speciale di Pyrgi, sono poche e brevissime. Si tratta di iscrizioni funerarie redatte in etrusco e in latino, che presentano corrispondenze di nomi personali e solo eccezionalmente dati utili per la conoscenza del lessico e della grammatica. Assai più ampio e complesso è naturalmente il contributo che hanno offerto e possono offrire le lamine d’oro di Pyrgi inscritte in fenicio e in etrusco (A), per le quali potrebbe essere discutibile la definizione come «bilingue» in senso tecnico, trattandosi di oggetti distinti (comunque uguali e trovati insieme); ma che a parte alcune indiscutibili divergenze tra i due testi, hanno in sostanza lo stesso contenuto: cosicche la versione etrusca risulta più o meno efficacemente illuminata da quella fenicia, con risultati di grande importanza ermeneutica già in parte rilevati e di cui si tratterà ulterior-mente più avanti in uno specifico esame di queste iscrizioni. Partendo dalle certezze di base sin qui descritte (valore di singole parole con particolare riguardo all’onomastica e significato d’insieme dei testi), il processo interpretativo si sviluppa ulteriormente, a livello di ipotesi, attraverso più approfonditi tentativi di analisi contestuale e strutturale, nei quali consiste l’essenza di ciò che, più o meno vagamente, suole intendersi come metodo combinatorio: com- plesso di operazioni che non ha, dunque, capacità di rivelazioni ermeneutiche primarie, ma svolge una funzione secondaria di verifica, precisazione ed estensione dei dati acquisiti. Si tratta di controllare la ricorrenza delle singole parole, valutarne la posizione e i rapporti, studiarne le forme, prospettarne le funzioni, distinguere frasi e partizioni dei testi, e così via. Molte volte i risultati di queste indagini ricostruttive sono ovvii o altamente probabili: quasi un semplice prolungamento delle nozioni di partenza, con conseguente ampliarsi delle zone di traducibilità praticamente sicura. Altre volte invece si tende a costruire ipotesi ingegnose, ma non dimostrabili, spesso contrastanti tra loro, o a costruire ipotesi sopra ipotesi, e a sostenerle puntigliosamente, sino a dare l’impressione di una gigantesca macchina girante a vuoto: ciò che costituisce appunto il limite degenerativo di tanta parte dei tentativi «combinatorii» degli ultimi decenni, cui va reagito con un maggiore senso di misura e di prudenza. Occorre infine riconoscere e sottolineare con chiarezza che non soltanto tutte le conquiste sino ad oggi realizzate nel processo d’interpretazione dei testi etruschi, ma anche l’intero patrimonio di conoscenze sulle caratteristiche e sulla struttura della lingua etrusca di cui si darà conto nel capitolo successivo derivano in ultima analisi da quei dati di evidenza primaria sui quali si è ritenuto opportuno insistere nelle pagine che precedono. Lo studio linguistico è nettamente conseguente all’originaria certezza dei significati, e non viceversa.
Alfabeto etrusco Si riporta brevemente l’alfabeto etrusco, visto nelle diverse fasi del periodo etrusco:
Nella seguente tabella si confrontano gli alfabeti delle principali lingue del mondo classico:
Inoltre, si confrontano gli alfabeti delle principali lingue italiche: Etrusco Osco Umbro Volsco
Piccolo vocabolario etrusco In questo vocabolario, uso le due lettere sh per rappresentare la lettera M Etrusca, scritto normalmente con s’. ais, plurale aisar, dio. am, esser. an, egli, ella. apa, padre. ati, mader. avil, anno. clan, figlio. eca, questo. fler, offerta, sacrificio. hinthial, anima. in, esso. lauchum, re. lautun, famiglia. mi, mini, Io, me. mul-, offrire, dedicare. neftsh, nipote. puia, moglie. rasenna or rasna, Etrusco. ruva, fratello. spur- or shpur-, città. sren or shran, figura. shuthi, tomba. tin-, giorno. tular, confini. tur-, dare. zich-, scrivere. zilach, un tipo di magistrato.
Numerali: 1. thu 2. zal. 3. ci. 4. sha. 5. mach 6. huth. 7. semph. 8. cezp. 9. nurph. 10. shar.
Trascrizione delle iscrizioni Le trascrizioni delle lettere etrusche qui adottate sono conformi agli usi più comuni tra gli etruscologi. Ciò a comportato la composizione di segni-immagini appositamente create , , , etc. che potessero essere viste con qualsiasi sistema operativo. La soluzione non è molto elegante sul piano tipografico, ma non crea confusioni di lettura rispetto ai simboli tradizionali. Per la trascrizione delle spiranti si sono impiegati i simboli tradizionali (quelli del Thesaurus Linguae Etruscae e del Corpus Inscriptionum Etruscarum), sebbene vari autori si siano adeguati al sistema del Prof. Helmut Rix, sistema che dà luogo a qualche arbitrarietà, poiché presuppone una precedente ipotesi sulla provenienza dell’iscrizione. I valori delle lettere dell’alfabeto etrusco sono noti da parecchio tempo anche nelle varietà locali. L’unico problema riguarda il suono marcato dal san o tsade nell’area meridionale che equivale al suono marcato dal sigma comune a tre tratti al Nord e al sigma a quattro tratti usato a Caere. Il prof. H. Rix ha riportato in auge una vecchia ipotesi di A. Pauli, secondo cui l’etrusco ha una spirante postdentale [s] e una spirante palatale [ ] (quella di it. sci, ingl. shape, franc. chou etc.). Questa tesi va acriticamente prendendo piede presso altri etruscologi, sebbene non possa basarsi su alcuna prova epigrafica e linguistica. Secondo un’altra ipotesi, sostenuta da M. Durante (in Studi in onore di V. Pisani, I, Brescia 1969, pp. 295-306) e caldeggiata da M. Cristofani (Introduzione allo studio dell’etrusco, Firenze 1991), i grafemi suddetti marcano /ss/: lo dimostrerebbe il fatto che il suffisso patronimico e gamonimico -sa (al Nord) o - a (al Sud) è trascritto in caratteri latini come -ssa. L’ipotesi che il san meridionale e il sigma settentrionale esprimano [ss] potrebbe essere accettata senza grosse obiezioni quando tale grafema non è all’inizio della parola; ma per i numerosi termini “meridionali” che iniziano col san e “settentrionali” che iniziano col sigma occorrerebbe supporre una “tensione dei muscoli orali” (per usare le parole del Cristofani) che contrasta con le regole dell’economia fonetica. È probabile che nell’etrusco recente questo potesse essere uno degli esiti del suffisso suddetto. Occorre però notare che a volte il suffisso è scritto -za sia in caratteri latini che etruschi e che anche altri dati epigrafici (ad es. la serie ut(u)s e / u uze / utu e / utuse) mostrano come i grafemi in questione marcassero un’affricata postdentale o un suono confondibile con essa. A nostro avviso il san meridionale (Volsinii, Vulci, Tarquinia, Campania), il sigma al Nord (Chiusi, Perugia, Cortona, Siena, Volterra, Vetulonia, Populonia, Emilia, Adria) e il sigma a quattro tratti di Caere marcano appunto un suono affricato postdentale, che spesso è l’esito di un incontro s+t o di un originario gruppo st- . Come afferma ad es. André Martinet, in latino i gruppi -ts- originari si risolsero in -ss-. Quindi anche nel tardo etrusco la particolare affricata posdentale marcata dai simboli suddetti, forse più prolungata di /z/, si sarebbe risolta ora in -ss- ora in -zz-(sorda) quand’era in posizione intervocalica. In alcune iscrizioni della zona di Cortona, e in particolare nella Tabula Cortonensis, è usata una e rovesciata che qui viene riprodotta con lo stesso simbolo. Dall’esame della Tabula Cortonensis si deduce che essa marca tre diversi suoni: 1) una e con indebolimento verso i, come nei derivati di *pet- (p tkeal, p tr-), in t csinal, s tmnal etc. 2) una tendenza all’atonìa a favore della liquida o nasale successiva (p rkna, t rsna, c n, t n a) o una colorazione verso o (ad esempio i casi in cui si ha lat. ol, rispetto a etr. el : nel gruppo vel- di V l, V lara, V l inal, V l ur, V lusina, V l e e poi in F l ni, liunt , t l; in C latina e anche in pru che pare avere la base di lat. oper-. 3) una e lunga e chiusa in Sc va < Skaiva, Sc v < Scevai , An < Anei , sparz te < *sparzaite che corrisponde all’uso del digrafo ei nell’umbro scritto in caratteri latini.
In alcune iscrizioni dell’area senese e nel Fegato di Piacenza è usata una particolare forma a U o V rovesciato ( ) per marcare /m/. Ad esempio le iscrizioni si leggono 1 = l . hepni . hermes 2avial 2 = herme . hereni 2 lar al.
Nell’iscrizione 2 sono notevoli le forme di m e di h ; in 1 sono notevoli le legature di lettere che realizzano ep e me.
Iscrizioni indicanti alfabeti Si riportano brevemente esempi di alfabeti rinvenuti su reperti archeologici
1. a b c d e v z h i k l m n s o p s q r s t u 2. a b c d v e z h i k l m n o r s q s t u
1 Alfabeto modello inciso su una tavoletta di avorio, da Marsiliana (agro di Vulci; VII sec. a. C.). Si notino le spiranti , M, , X. 2 Alfabeto inciso sull’anforetta di Formello (presso Veio; VII sec. a. C.) con le spiranti , M, , X. 3 Parte di alfabeto scritto su un bucchero del VI secolo a. C., trovato a Ferentum. a c e v z i k l
4. Alfabeto inciso sul letto funerario di una tomba di Magliano (Toscana), VI sec. a. C. a e v z h i k l m n p r s t u f
5. Alfabeto inciso su un vaso perugino della seconda meta’ del VI secolo a. C. a e v z h i k l m n p r s t u Dopo l’alfabeto sono scritte 4 lettere, in senso opposto: tafa (altri leggono abat o afat).
6. Alfabeto su ciotola proveniente dagli scavi presso Roncoferraro (Mantova). L’alfabetario, che risale al IV sec. a. C., rispecchia fedelmente le norme ortografiche dell’ Etruria padana, da Spina a Bologna. a e v z h i k l m n p r s t u f
7. Alfabeto scritto su un fondo di vaso trovato a Poggio Moscini (Bolsena) e datato al II secolo a. C. ] c e v z h i l m n p r s t u [
Il Cippo di Perugia E’ un cippo rettangolare di travertino, ritrovato nei dintorni di Perugia e conservato ora al Museo archeologico della città. L’iscrizione corre per 24 righe sulla facciata e continua su una delle supertìci per 22 righe, per un totale di 128 parole. La scrittura è quella in uso a Perugia tra III e II secolo a.C. Il testo, a carattere giuridico, e la trascrizione su pietra di una sentenza relativa a questioni di proprietà tra le famiglie perugine dei Velthina e degli Aftuna. Il Fegato di Piacenza L’argomento è stato già affrontato nella sezione archeologica relativa a Piacenza. In questo paragrafo affronteremo l’aspetto linguistico e la sua interpretazione. Il fegato etrusco di bronzo ha le seguenti dimensioni: mm 126 x 76 x 60. Per l’esame delle viscere esso veniva capovolto di sotto in su perché la parte inferiore era ritenuta la più importante, su questa si alzano tre protuberanze che sporgono: la più piccola a forma semi mammellare (il processus papillaris), la seconda piramidale (il processus pyramidalis), la terza è la cistifellea. Su questa superficie si trovano quaranta iscrizioni che si riferiscono a nomi di divinità tra le quali sono identificate: Tin (Giove), Uni (Giunone), Neth (Uns), (Nettuno), Vetisi (Veiove), Satres (Saturno), Ani (Giano), Selva (Silvani), Mari (Marte), Futlus (Bacco), Cath (Sole), Herole (Ercole), Mae (Maius) e altri cinque o sei che non hanno corrispondente nella religione romana. Nella parte convessa si trovano due iscrizioni, una su di un lobo (Usils = parte del sole), l’altra sull’altro (Tivs = parte della luna). Il fegato di bronzo reca attorno al margine esattamente sedici caselle contenenti ciascuna il nome di una divinità e queste sedici caselle corrispondono alle altrettante parti in cui gli Etruschi dividevano il cielo.
Fegato di fronte e trascrizione Sul fegato etrusco sono stati fatti molti studi, i più importanti furono quelli dei ricercatori tedeschi Deecke (1880), Korte (1905), Thulin (1906) che misero in risalto l’importanza di questo cimelio archeologico definendolo un documento fondamentale per la conoscenza della religione e della lingua etrusca. Ma a che cosa serviva questa riproduzione bronzea di un fegato di pecora con tante iscrizioni in lingua etrusca? Il Korte lo confrontò con il coperchio di un’urna cineraria ritrovata a Volterra che rappresentava un sacerdote (3° secolo a.C.) che tiene in mano un fegato come quello ritrovato a Ciavernasco di Settima, vicino al ponte della Ragione. Dunque il nostro bronzo è uno strumento originale della “disciplina”; l’aruspice interpretava il volere divino da segni particolari riscontrati nel fegato della vittima sacrificata, cioè poteva prevedere se un’impresa si sarebbe compiuta sotto influssi favorevoli o sfavorevoli, confrontando il viscere ancora caldo col modello bronzeo inscritto, che fungeva da guida, da prontuario. Il Fegato Etrusco risale al periodo tra il secondo e il primo secolo avanti Cristo (come denunciano le caratteristiche delle scritture usate nelle iscrizioni) e non all’epoca della dominazione etrusca nella Pianura Padana (V - IV - sec. a.C.). Quindi il fegato non è da ritenersi un documento della dominazione etrusca nella provincia di Piacenza, ma un oggetto prodotto successivamente da nuclei etruschi presenti nelle colonie tra Pesaro e Rimini o nella stessa Piacenza, oppure è da ritenersi un oggetto erratico perduto da un auspice che seguiva una legione romana (Ducati). La sua relativa “tardità” nulla toglie all’interesse che desta in noi, perché rappresenta una lunga tradizione conservatasi intatta attraverso i secoli (Terzaghi). Più di quaranta saggi sono stati pubblicati in tutto il mondo sul Fegato piacentino, ciò testimonia la “fama” a livello mondiale del nostro reperto, unico esemplare nella sua forma (esiste un altro Fegato di Alabastro al museo Guarnacci di Volterra); modelli di fegato con le stesse caratteristiche suddivisioni, sono stati ritrovati a Babilonia, nella valle del Tigri e dell’Eufrate e ad Hattusas la capitale degli Ittici. Questi sono in terra cotta ma utilizzati con lo stesso scopo religioso di quello di Piacenza. Esiste anche un’interpretazione geografica del fegato, di cui si riporta una breve descrizione: • le scritte sulla parte posteriore della mappa indicano le due regioni principali della mappa, la parte meridionale LIVR (o TIVR, non e’ chiara la lattera iniziale) diventa YHDS (oppure T-HDS) che ricorda sia la parola GIUDA che la HADESH (Kadesh) storicamente famosa e attualmente localizzata erroneamente nella Siria mediorientale • la regione settentrionale viene invece denominata YSILS che diventa P^HY^, leggibile come PNHYN (in queste scritte le due lettere S etrusche appaiono unificate e quindi c’e’ equivalenza tra la N semitica e la sua quasi uguale ^, la lettera “muta”), la regione del monte PAN-Cervino nonche’ legata alla questione punica Tra le scritte delle singole regioni appaiono evidenti le seguenti interpretazioni: • la montagna a forma di conoide, il monte Cervino, si presenta con la scritta TLUS che diventa TYP^ (TYPN), il nome della divinita’ TIFEO (TIFONE) • Tifeo-Tifone e’ legato storicamente ai vulcani dell’Italia meridionale, dall’area vesuviana al vulcano Etna e difatti nella mappa compare la scritta TYP^ esattamente nel settore che corrisponde alla Campania e nello spicchio esterno corrispondente alla Sicilia • tra la regione Sicilia (TLUS che diventa TYP^) e la regione Calabria c’e’ un segno lungo che indica chiaramente lo stretto di Messina • la regione Calabria, indica con il nome LEThA tale stretto di Messina e la parola diventa YG-ZB • a prescindere dal significato suo originale (per esempio Z-B, “questo e’ il padre”), ZB e’ lo ZEB famoso nelle cronache assire, un fiume che nasce dal Monviso, scorre nell’Adriatico, passa dallo stretto di Messina e arriva a sfociare nell’oceano Atlantico • che la parola ZB sia legata a questo fiume appena descritto lo ritroviamo nella parola accanto al Monviso, che anch’essa la si legge come YG-ZB-K (LEThAM etrusco) • sappiamo per certo che il fiume ZEB erano due, uno meridionale e uno settentrionale, e difatti troviamo aldila’ della catena alpina, dove nasce il fiume Danubio, la parola CAThA che diventa tB-ZB, il “doppio Zeb”, o meglio l’altro Zeb da identificare come Danubio • nella parte centrale del fegato abbiamo la catena alpina e sotto di essa abbiamo il fiume che nasce dalla protuberanza a sinistra, il Po e il Monviso • la catena montuosa alpina si abbassa nella parte occidentale • l’ultima lingua della protuberanza rappresenta la striscia morenica all’imbocco della valle d’Aosta (la piu’ grande morena glaciale d’Europa, un panorama unico che lo si nota fin da lontano) • si raggiunge cosi’ la zona della grande piramide, cosi’ alta da essere visibile da tutta la pianura • finche’ siamo in pianura la piramide e’ rappresentata dal Monterosa (un riferimento unico per come si distingua nettamente dal resto della catena) • girando dietro la morena ed entrando nella valle d’Aosta la vera montagna-piramide la identifichiamo con il monte Cervino • la regione Toscana appare come YD^Y, chiaramente legata a Giuda e la parola successiva contiene il DG che contraddistingue la civilta’ etrusca, il VEL che diventa appunto DGY, con DG uguale a “pesce” ma anche ai successivi DOGI • la regione delle Marche appare come “tHYGL”, chiaramente legata ai TIGLAT assiri di cui troviamo tracce nei reperti Piceni • la regione degli Abruzzi appare come NGY-DB e sembra legata all’influenza della lingua ungherese (non e’ un caso che sia cosi’ dato che il popolo Israelitico abitava a fianco di altre popolazioni e gli stessi Edomiti balcanici presero il loro posto durante le deportazioni), SELVA diventa NGY-DB, il “grande dio” (“nagy deba”) • la stessa scritta NGY-DB la ritroviamo difatti nella zona balcanica a mostrare il collegamento di questa regione italica con quelle balcaniche-danubiane • nelle regioni tedesche, nella parte settentrionale della mappa, troviamo riferimenti ai “fasci”, P-Sh (con la P che semiticamente si tramuta facilmente in F, come Fenici e Punici) • la parte piu’ settentrionale, all’incirca la Danimarca, viene scritta come TINSRNE che diventa THLNS-LG, i “luoghi di Atlans” e mi sembra ovvio come questo abbia portato a considerare anticamente Atlante colui che sostiene il mondo (e’ questa la regione dove si e’ piu’ vicini al cielo della stella polare) e anche Atlantide trova qui la sua localizzazione Le Lamine di Pyrgi Nel 1964, a Santa Severa, cittadina che sorge sull’antica Pyrgi, il porto di Caere, vennero alla luce, durante gli scavi diretti da Massimo Pallottino, tré lamine d’oro: su una era inciso un testo in lingua punica, sulle altre due un testo etrusco. Le lamine erano state accuratamente nascoste, all’epoca della distruzione del santuario, in una vasca scavata fra il tempio A ed il tempio B. Se è vero che il testo in lingua punica non presenta problemi insormontabili, nessuno ci dice che l’etrusco ne costituisca la traduzione. Possiamo solo comparare i nomi propri che figurano nei due testi. Ad esempio, nella lamina punica un personaggio è definito “re delle genti di Caere”: ora, sappiamo che in quell’epoca la città non aveva re. (scrive il dott. Massimo Pittau, insigne linguista) Il solo dato certo è che le due versioni parlano dello stesso argomento, cioè di un trattato stipulato fra Caere e Cartagine; i contraenti invocano a testimoni del patto le divinità tutelari di entrambe le nazioni. Nei due testi si riconosce il nome del magistrato di Caere, Thefarie Velianas, che avrebbe dedicato un santuario ad Uni. Sappiamo che le cerimonie religiose celebrate a conclusione dell’accordo si svolsero secondo il rito punico. Purtroppo nella lamina in punico non esiste la traduzione di un solo termine etrusco per noi nuovo. Si riporta il testo redatto dal Prof . Massimo Pittau, studioso di lingua etrusca. Circa 40 anni fa, e precisamente nel 1964, si è avuta una scoperta archeologica e linguistica che ha colpito in maniera immediata e notevole il mondo degli studiosi specialisti della civiltà antiche, e non soltanto questi: a Pirgi, cioè nel porto della città etrusca di Cere (attuale Cerveteri), durante gli scavi condotti in un santuario di cui si aveva già notizia per antiche testimonianze storiche, nei resti di un piccolo locale interposto fra i due templi, sono state trovate tre lamine d’oro. Su queste risultano incise delle scritte, due in lingua etrusca ed una in lingua punica o fenicia, le quali sono state riportate alla fine del sec. VI od ai primi anni del V a.C.
Etrusco Punico La notizia rimbalzò da un capo all’altro nel mondo dei dotti, anche per l’immediata prospettiva che si intravide di avere finalmente trovato iscrizioni etrusche abbastanza ampie con la traduzione in un’altra lingua conosciuta e quindi con la speranza di vedere proiettate sulla lingua etrusca, scarsamente conosciuta, nuove ed importanti cognizioni da parte della lingua fenicio-punica, che invece è conosciuta in maniera discreta. Senonché questa speranza cadde quasi immediatamente, quando si intravide che l’iscrizione in lingua fenicio-punica e quella maggiore in lingua etrusca si corrispondono tra di loro, sì, ma non costituiscono affatto un esatta “traduzione” l’una dell’altra, cioè si intravide che si ha da fare non con un «testo bilingue etrusco-punico», bensì con un «testo quasi-bilingue etrusco-punico», nel quale cioè i due testi si corrispondono solamente a grandi linee. D’altronde quella speranza cadde in larga misura, anche per la circostanza negativa che pure il testo punico si rivelò subito scarsamente aggredibile in fatto di interpretazione e di traduzione effettiva e minuta. Dopo circa un quarantennio di studio ermeneutico molto intenso delle lamine di Pirgi, condotto sia dagli specialisti della lingua etrusca sia da quelli della lingua punica, le conclusioni alle quali si è alla fine pervenuti sono che da un lato alla conoscenza dell’etrusco sono venute dal testo punico alcune conferme significative, ma purtroppo anche molto ridotte in quantità e in qualità, dall’altro la traduzione dei due testi, condotta in maniera comparativa, implica purtroppo numerosi e grandi punti oscuri sia per l’uno che per l’altro. E la presa di posizione ultima che gli specialisti delle due lingue hanno assunto, in maniera esplicita od anche implicita, è che convenga mandare avanti l’analisi e la interpretazione e traduzione di ciascuno dei due testi in maniera sostanzialmente indipendente l’uno dall’altro, nella quasi certezza che si ha da fare con due versioni alquanto differenti di un identico messaggio relativo ad un certo evento storico: la consacrazione, da parte di Thefario Velianio, lucumone o principe-tiranno di Cere, di un piccolo edificio religioso in onore della dea Giunone-Astarte. Per parte mia premetto che il mio presente intervento sui testi etruschi delle lamine di Pirgi trova la sua motivazione in due importanti circostanze: in questi ultimi quasi quarant’anni che ci separano dalla scoperta delle lamine, la conoscenza dell’etrusco ha effettuato numerosi ed importanti passi in avanti, conseguenti sia al ritrovamento di altro materiale documentario e quindi ad una più ampia e più esatta documentazione della lingua etrusca, sia al conseguente ulteriore approfondimento scientifico che ne hanno effettuato gli specialisti, soprattutto quelli di estrazione propriamente linguistica. Procedo adesso a presentare il testo delle tre lamine prima nella loro effettiva documentazione epigrafica e dopo nel loro ordinamento propriamente linguistico, infine la mia traduzione ed il mio commento storico-linguistico di ciascuna. 1ª lamina con iscrizione in lingua etrusca
cioè Traduzione: «Questo thesaurus e queste statuette sono divenuti di Giunone-Astarte. Avendo la protettrice della Città concesso a Thefario Velianio due [figli] da Cluvenia, (egli) ha donato a ciascun tempio ed al tesoriere offerte in terreni per i tre anni completi di questo Reggente, offerte in sale (?) per la presidenza del tempio di questa (Giunone) Dispensatrice di discendenti; ed a queste statue (siano) anni quanti (sono) gli astri!». tmia «thesaurus, tesoro di santuario», da confrontare col greco tameîon «tesoro o tesoreria» (vedi sotto tameresca); si trattava di una di quelle edicole che una città o il suo regnante costruiva accanto ai grandi santuari per esporvi i doni offerti alle rispettive divinità, anche con finalità propagandistiche di immagine esterna nei confronti dei numerosissimi frequentatori dei santuari. ita tmia icac heramasva «questo thesaurus e queste statuette». Il pronome dimostrativo ita «questo» corrisponde perfettamente ad ica «questo», per cui è da escludersi che in questo passo dietro le due varianti esista una qualche distinzione. L’uso così ravvicinato che lo scrivano ha fatto delle due varianti può essere stato determinato, al livello di meccanismo inconscio, dalla attrazione delle consonanti vicine: ita t- e ica-c. heramasva «statuette», in cui -s(a)- è una variante del noto suffisso diminutivo -za, mentre -va è la ugualmente nota desinenza del plurale (vedi avanti heramve). Probabilmente le statuette erano due, una per ciascuno dei figli di Thefario Velianio, e ancora probabilmente raffiguravano i due bambini oppure due animali che simbolizzavano altrettante vittime da immolare alla divinità. vatiekhe «sono venuti, sono divenuti», forse da confrontare col lat. vadere; è al preterito debole attivo, in 3ª persona plurale. unialastres, da distinguere in unial-astres «di Giunone-Astarte», è da confrontare con fuflunsul pakhies «di Funfluns-Bacco» dell’iscr. TLE-TET 336, prove evidenti, l’una e l’altra, di interpretazione od assimilazione sincretistica di dèi stranieri in origine differenti. Una spiegazione unitaria del vocabolo in senso totalmente etrusco è da respingersi perché inspiegabile dal punto di vista morfologico; d’altronde anche l’iscrizione punica nella prima riga richiama esplicitamente Astarte: L’STRT. vatiekhe unialastres «sono divenuti di Giunone-Astarte», cioè, dopo la dedicazione e la consacrazione ormai «appartengono a Giunone-Astarte». themiasa probabilmente significa «che ha concesso, avendo concesso», participio passato attivo (LEGL 124), da connettere con thamuce «concesse» della 3ª lamina. mekh il contesto ci spinge a reintegrare una l morfema del genitivo, cioè mekhl «della città, della città-stato, dello Stato, del Popolo», in questo caso “della città-stato di Cere”; vedi mekhl dell’iscr. CIE 5360 di Tarquinia e della Tabula Cortonensis (capo I). thuta «tutore, protettore-trice, patrono-a»; cfr. ati thuta «madre protettrice» dell’iscr. TLE-TET 159; è da confrontare col lat. tutor, tutrix, che è privo di etimologia (DELL s.v. tueor) e che pertanto potrebbe derivare proprio dall’etrusco. thefariei è un prenome maschile, che corrisponde a quello lat. Tiberius; è in dativo asigmatico (LEGL 80, 2°). In velianas non compare la desinenza del dativo a norma della “flessione di gruppo”; invece la -s è quella dell’originario genitivo patronimico ormai fossilizzata (LEGL 78). sal «due». Non si può affatto escludere che questo sia l’esatto significato di sal con la considerazione che la compresenza di zal e sal nel Liber linteus della Mummia vieterebbe che i due vocaboli avessero il medesimo significato, come ha scritto M. Pallottino, Saggi, 648; infatti l’alternanza zal/sal «due» si riscontra anche nella Tabula Cortonensis (capo I). cluvenias gentilizio femm. (in genitivo), che trova riscontro in quello lat. Cluvenius (RNG). munistas «del monumento o edificio o tempio», letteralmente «di questo monumento ecc.», da distinguere in munis-tas (in epoca recente sarebbe stato munists), in genitivo di donazione (LEGL 104, 136). thuva(-s) probabilmente aggettivo riferito a munistas e pur’esso in genitivo; siccome sembra derivato da thu «uno», probabilmente significa «singolo», «ciascuno», con riferimento a ciascuno dei due templi che costituivano il complesso sacrale di Pirgi. tameresca (tameres-ca) «e del tesoriere» del tempio, anch’esso in genitivo di donazione; vedi tamera «dispensiere, tesoriere, questore» delle iscr. TLE-TET 170, 172, 195, da confrontare col greco tamías «dispensiere». Per la congiunzione enclitica -ca vedi hamphisca, laivisca del Liber linteus e fariceka dell’iscr. TLE-TET 78. ilacve «offerte» (plur.) (LEGL 69). tulerase «in terreni» e sarebbe il dativo sigmatico plur. di tul «confine, terreno, territorio», plur. tular = lat. fines «confine,-i» e «terreno,-i, territorio» (LEGL 80, 1°). nac «per, in», preposizione che nella frase ci avil khurvar «per i tre anni completi», avente un implicito valore “temporale”, mostra di reggere l’accusativo, mentre nella frase seguente nac atranes zilacal «per la presidenza del tempio», avente un implicito valore “finale”, mostra di reggere il genitivo. khurvar siccome richiama il lat. curvus, è probabile che significhi «circolari», ma qui col significato di «completi» (aggettivo plur.) (LELN 122). tesiameitale, da confrontare con tesinth «curatore, comandante, capo» dell’iscr. TLE-TET 227 (LEGL 124); lo traduco «di questo Reggente» per il fatto che non si riesce a capire quale fosse l’esatta posizione giuridico-istituzionale di Thefario Velianio rispetto alla città-stato di Cere, anche se si ha l’impressione che fosse un “Principe-Tiranno”, come quelli che di volta in volta si impadronivano del potere in numerose poleis greche. Inoltre è ragionevolmente ipotizzabile che egli fosse stato aiutato dalla potente Cartagine nella sua conquista del potere a Cere; ed in questo modo e per questa ragione si comprenderebbero bene sia la assimilazione effettuata nella lamina tra la etrusca Giunone e la fenicia Astarte, sia la versione in lingua punica dell’iscrizione etrusca di questa 1ª lamina. In proposito è appena da ricordare la notizia data da Erodoto (I 166, 167; VI 17) della lega politico-militare che si era stabilita fra Cere e Cartagine, la quale aveva attaccato i Focesi della colonia greca di Alalia, in Corsica, nella battaglia navale del Mare Sardo (circa 535 a.C.) e, pur con un esito militare incerto, li aveva costretti a sloggiare dalla Corsica. Il vocabolo è da distinguere in tesiame-itale, con -itale genitivo del pronome dimostrativo ita «questo-a» in posizione enclitica; in epoca più recente sarebbe stato -itle e cioè *tesiameitle (cfr. il seguente seleitala). alsase «in sale» (?), in dativo sigmatico come tulerase, ma al sing.; in questa supposizione sarebbe da richiamare il greco áls ed il lat. sal, inoltre il nome della città etrusca di Alsium sulla costa tirrenica presso Cere andrebbe spiegato con riferimento alla estrazione del sale. È appena da ricordare il grande valore che aveva il sale in epoca antica, anche per la conservazione delle carni e dei pesci. In subordine prospetto che ilacve alsase significhi «offerte (in terreni) ad Alsium». atrane(-s) sembra un aggettivo derivato dall’etr.-lat. atrium «atrio» ed anche «tempio», per cui significherebbe «templare, del tempio» (in genitivo). zilacal (zilac-al) «della prefettura o presidenza» templare o del tempio. seleitala «di questa Dispensatrice», da confrontare con selace «ha elargito» della 3ª lamina; è da distinguere in sele-itala, con -itala ancora genitivo del pronome dimostrativo ita in posizione enclitica e forse al femm. (cfr. venala dell’iscr. TLE-TET 34); in età più recente sarebbe stato *seleitla (cfr. tesiameitale) (LEGL 107). acnasvers probabilmente «d(e)i discendenti o successori» (genit. plur.), da confrontare con acnanas «che lascia, lasciando», acnanasa «che ha lasciato, avendo lasciato» (LEGL 123, 124). itanim (itani-m) probabilmente «ed a questi-e», dativo plur. di ita «questo-a», da confrontare con etan «questo-a» (accusativo; TLE-TET 620, Cr 3.24). Però potrebbe corrispondere al più recente etnam «poi, inoltre, in verità» = lat. etenim «(e) infatti, in realtà, in verità», per cui la frase andrebbe tradotta: «In verità le statue (abbiano tanti) anni quanti (sono) gli astri!». In ciascuna delle due soluzioni si deve pensare ad una frase ottativa, che per ciò stesso spiegherebbe l’ellissi del verbo. È del tutto errato affermare - come ha fatto un archeologo - che non esistono proposizioni ottative che sottintendano il verbo: ne esistono in tutte le lingue, ad es. la locuzione italiana Alla salute! sottintende questo sia o torni alla tua (vostra o nostra) salute!; la frase augurale Auguri agli sposi e figli maschi! sottintende ed abbiano figli maschi! heramve «statue» (plur.), quelle offerte a Giunone-Astarte da Th. Velianio per i suoi due figli, probabilmente due, cioè una per ciascuno; è da confrontare col greco hérma «erma, base, sostegno, puntello, cippo (anche funerario), cippo con figura di Ermes», dio Hérmes «Ermes», fiume Hérmos della Lidia (finora privi di etimologia, ma probabilmente anatolici e lidî; GEW, DELG) ed inoltre con la glossa etr. Ermius «agosto» (ThLE 416). eniaca «quanti-e». pulumkhva «astri, stelle» (plur., LEGL 69), significato assicurato da un corrispondente vocabolo della iscrizione punica. 2ª lamina con iscrizione in lingua fenicio-punica
«Alla signora Astarte questo sacello ha fatto e donato Tiberio Velianio re di Cere, nel mese di Zebah, come dono nel tempio e nella cella, perché Astarte ha favorito il suo fedele, nel terzo anno del suo regno, nel mese di KRR, nel giorno della sepoltura della divinità. E gli anni della statua della divinità siano tanti quanti (sono) gli astri». Questa traduzione della 2ª lamina è stata da me derivata da quelle correnti prospettate da specialisti della lingua fenicio-punica, ma adattata alla mia personale traduzione della 1ª iscrizione in lingua etrusca. Su questa mia traduzione però non intenderei insistere, per il motivo che sono consapevole di non avere una sufficiente competenza su questa lingua, tale da osare di confrontarmi coi colleghi semitisti. L’unica cosa che mi sento di dire è che quasi certamente lo scriba che ha stilato l’iscrizione fenicio-punica era un cartaginese, il quale non comprese bene l’iscrizione stilata dal suo collega etrusco; e soprattutto da questo fatto saranno derivate le discrepanze tra le due iscrizioni. 3ª lamina con iscrizione in lingua etrusca
cioè: «Così Thefario Velianio ha concesso l’offerta del corrente mese di dicembre (ed) ha fatto elargizioni a Giunone. La cerimonia degli anni del thesaurus è stata la undicesima (rispetto a)gli astri». Oppure «Così Thefario Velianio ha concesso l’offerta del corrente mese di dicembre a Giunone (ed) ha fatto elargizioni (al tempio). La cerimonia degli anni del thesaurus è stata la undicesima (rispetto a)gli astri». Sia il cambio di grafia fra le due lamine scritte in etrusco sia la differenza tra la forma del gentilizio Velianas della prima e Veliiunas di questa ci assicurano che ciascuna delle due lamine è stata scritta da un differente scrivano. Probabilmente il nome del committente in realtà suonava Vélinas, cioè con l’accento sulla prima sillaba e con la vocale posttonica indistinta. thamuce «concesse, ha concesso»; nell’iscr. CIE 5357 compare come thamce, cioè sincopato (vedi themiasa della 1ª lamina). etan(-al) interpreto «(del) presente o corrente», intendendolo come derivato dal pronome dimostrativo eta «questo». masan probabilmente «dicembre» oppure, in subordine, «novembre», e corrisponde alla forma sincopata masn del Liber linteus. tiur «mese». masan tiur sono privi della desinenza del genitivo ai sensi della “flessione di gruppo” (LEGL 83-84). unia(-s) «(di) Giunone» in genitivo di donazione o dedicazione (LEGL 136). vacal «rito sacro, cerimonia»; nel Liber linteus figura sincopato in vacl. tmial «del thesaurus» (genit.); vedi 1ª lamina. avilkhval (avil-khva-l) «degli anni», in genitivo plur. (LEGL 74). amuce «fu, è stato». pulumkhva «per, rispetto agli astri», i quali segnavano il passare del tempo; è un complemento di tempo con morfema zero. snuiaph «undici»; già Marcello Durante aveva intravisto che si tratta di un numerale. Secondo G. Giannecchini («La Parola del Passato», 1997), indicherebbe il numero «dodici»; io lo escluderei, visto che in etrusco «dodici» molto probabilmente si diceva sranczl (LEGL 96). Comunque questo divario di un numero non implicherebbe alcuna differenza effettiva, per effetto del modo in cui la gente spesso effettua la numerazione, cioè saltando sia il terminus a quo sia il terminus ad quem. Dunque la commemorazione della prima fondazione e dedicazione del thesaurus venne fatta undici/dodici anni dopo, secondo un numero che nei tempi antichi aveva anche una valenza sacrale in virtù delle dodici lunazioni della luna. E per questo motivo si spiega la diversità dello scrivano della 1ª lamina rispetto a quello della 3ª. Molto notevole è il fatto che in questa 3ª lamina non si faccia alcun riferimento alla fenicia Astarte e che a questa iscrizione etrusca non ne corrisponda una analoga punica: nella verosimile supposizione che ho fatto a proposito della 1ª lamina, evidentemente Thefario Velianio negli undici/dodici anni trascorsi aveva ormai rafforzato il suo potere su Cere, per cui non aveva più bisogno dell’aiuto di Cartagine e tanto meno di ringraziarla pubblicamente. La Mummia di Zagabria Il manoscritto della “Mummia di Zagabria” è un “liber linteus” eseguito a inchiostro con un pennello su di un drappo di lino. E’ suddiviso in dodici riquadri rettangolari ognuno con 34 righe della scrittura. Il drappo veniva ripiegato “a fisarmonica” seguendo le linee verticali dei riquadri che funzionavano dunque come le pagine di un libro. Attualmente si conserva al Museo Archeologico di Zagabria ma è stato ritrovato in Egitto, dove era stato “riciclato” tagliandolo orizzontalmente in lunghe strisce, che furono utilizzate come bende per una mummia. Solo alcune delle strisce sono conservate, per cui il manoscritto ha grosse lacune. Il testo è in assoluto il più lungo tra quelli etruschi, esso consta infatti di 230 righe e di circa 1350 parole. Il testo ha una storia molto curiosa: verso la metà dell’Ottocento un collezionista croato (Mihail de Brariæ, scrittore della Regia cancelleria ungherese) aveva riportato in patria dall’Egitto, secondo l’uso dell’epoca, alcuni oggetti antichi, fra i quali una mummia. Qualche tempo dopo ci si accorse che le bende del reperto erano coperte da un testo scritto con l’inchiostro nero. Solo nel 1892 questo testo, di oltre 1200 parole, venne studiato dall’egittologo Brugsch e identificato come etrusco. Dal 1947 mummia e bende vennero trasferite al Museo di Zagabria. L’ultimo restauro è stato curato da un’équipe italiana nel 1997. Si tratta di un calendario rituale che specifica le cerimonie da compiere nei giorni prestabiliti in onore di varie divinità. Le prescrizioni di carattere religioso sono tipiche dell’area tra Perugia, Cortona e Lago Trasimeno. La scrittura, molto precisa e accurata, è quella in uso nell’Etruria settentrionale tra il III e il lI secolo a. C. Un esempio dalla III colonna, riga 3: “ celi huthis zathrumis flerxva Nethunsl sucri” “Settembre sei venti offerte a Nettuno si dedichino “ ossia “ il 26 settembre si dedichino venti offerte a Nettuno” Si pensa che questo libro di lino, conosciuto come liber linteus di Zagabria, appartenesse a un aruspice, e che sia stato poi ridotto in strisce per fasciare la mummia. La Tabula Cortonensis Una delle più lunghe iscrizioni in lingua etrusca, la “Tabula cortonensis” (la tavola di Cortona) del III-II secolo a. C., la cui clamorosa scoperta è stata annunciata all’inizio della scorsa estate a Firenze, ha cominciato a svelare i primi “segreti”. Nel testo non si parla di defunti o riti funerari, come succede in genere con i reperti degli Etruschi riemersi dal sottosuolo, ma di un concreto e articolato passaggio di proprietà fra etruschi ben in vita e preoccupati di tutelare le proprie ricchezze. Solo quattro mesi fa Francesco Nicosia, ispettore centrale del ministero dei Beni culturali, ha reso nota l’esistenza di una tavola bronzea, misteriosamente ricomparsa nel 1992, con una fitta iscrizione di 32 righe, spezzata in sette frammenti, la cui decifrazione sta fornendo importantissimi elementi per la conoscenza della ancora in gran parte misteriosa lingua degli Etruschi. Ora un articolo della rivista “Archeologia viva” rende noti i significativi passi in avanti nella decrittazione delle parole della “Tabula Cortonensis”, grazie agli studi del professor Luciano Agostiniani, docente di glottologia all’università di Perugia. L’ipotesi al momento più fondata è che la “Tavola di Cortona” racconti di una transizione tra la famiglia Cusu, di cui farebbe parte il personaggio Petru Scevas, da una parte, e un gruppo di quindici persone, dall’altra. È stato decodificata anche una serie di numeri: il 10 (sar), il 4 (sa) e 2 (zal), che potrebbero indicare quantità di cose o estensioni di terreno. È possibile, secondo Agostiniani, che si tratti dell’atto di vendita di un terreno da parte dei latifondisti Petru Scevas e Cusu a piccoli proprietari compratori. Molti sono gli elementi eclatanti in questa straordinaria iscrizione. Anzitutto la formula di datazione con il nome degli eponimi, attestata qui per la prima volta per l’Etruria settentrionale. Il primo dei personaggi che compare nell’ultimo elenco è accompagnato dall’epiteto della carica rivestita, assai importante e attestata sempre per la prima volta nell’Etruria settentrionale: si tratta dello “Zilath Mel Rasnal”, il magistrato supremo dello Stato, che intervenne nella stesura dell’atto di compravendita. Il professor Agostiniani ha ipotizzato, inoltre, in base a numerosi riscontri, l’esistenza sulla “Tavola di Cortona” di tre elenchi di nomi: il primo rappresenta i venditori, il secondo i compratori e il terzo i garanti della regolarità del contratto. I garanti del contratto erano il magistrato supremo e i figli e i nipoti delle due parti. Ciò significa che nel diritto orale etrusco, chi garantiva la regolarità del contratto e i pagamenti non lo faceva solo per sé, ma anche per i suoi discendenti. Insomma, in caso di disgrazia o di insolvenza, il figlio o il nipote doveva garantire l’esecuzione del contratto. La Tegola Capuana Il testo della famosa “Tegola di Capua” (conservata al Museo di Berlino) rappresenta la più estesa di tutte le epigrafi etrusche mai ritrovate, se si eccettuano le bende della “mummia di Zagabria”, che costituiscono un vero e proprio libro. Si tratta di una lastra di terracotta (di centimetri 60 x 50), scoperta nel 1898 nella necropoli di Santa Maria Capua Vetere e recante una lunga iscrizione graffita, di cui restano leggibili circa treo cento parole. Suddiviso in dieci sezioni da una linea orizzontale, risulta attualmente costituito da 62 righe, alcune in parte perdute, e da circa 390 parole, non tutte conservate per intero. È suddiviso in dieci sezioni da una linea orizzontale. La scrittura è quella in uso in Campania intorno alla metà del V secolo a.C. Si tratta, come nel caso della Mummia di Zagabria, di un “calendario rituale” dove vengono prescritte cerimonie da compiere in certe date e in certi luoghi a favore di alcune divinità. Nel 1985 ne è stata presentata una bella edizione nel testo di Francesco Roncalli, Scrivere etrusco, che contiene anche il “libro di Zagabria” e il “cippo di Perugia”. Sui problemi dell’interpretazione del contenuto il riferimento più recente e importante è il libro Tabula Capuana (1995), uno degli ultimi lavori lasciati dall’archeologo Mauro Cristofani. La redazione del documento si può datare al 470 a.C., sebbene esso si debba ritenere la copia (o comunque la trascrizione) di un testo certamente molto più antico. In effetti sulla tegola è graffito un calendario festivo risalente all’età arcaica: un calendario di prescrizioni cultuali relativo a celebrazioni pubbliche e diretto, secondo il Cristofani, alla stessa comunità capuana. Il calendario è diviso in dieci sezioni, corrispondenti ai dieci mesi del calendario antichissimo e comincia da marzo (in etrusco, probabilmente, Velxitna). Anche il calendario romano (da cui deriva il moderno) ebbe, in origine, dieci mesi e certamente cominciava da marzo; ciò è provato al di là di ogni dubbio dai nomi di settembre, ottobre, novembre e dicembre, che oggi si trovano al nono, decimo, undicesimo e dodicesimo posto. Le fonti antiche dicono che gennaio e febbraio furono aggiunti dal re Numa; nel De die natali di Censorino (20, 30) si legge: «I quali ritenevano che i mesi siano stati dieci, come un tempo succedeva presso gli Albani, da cui ebbero origine i Romani. Quei dieci mesi (degli Albani) avevano in tutto 304 giorni, così distribuiti: marzo 31, aprile 30, maggio 31, giugno 30, quintìle 31, sestìle e settembre 30, ottobre 31, novembre e dicembre 30». Ecco dunque alcuni estratti del calendario festivo di Capua. I nomi dei mesi etruschi sono noti sostanzialmente attraverso alcune glosse, la “tegola di Capua” e il “libro di Zagabria” (l’asterisco indica le forme ricostruite, in quanto conosciute soltanto da glosse e non ancora attestate nei documenti etruschi originali): marzo = *velxitna; aprile = apiras( a); maggio = anpili(a) o ampner; giugno = acalva o acal(a); luglio = *turane o par-{}um; agosto = *hermi; settembre = celi; ottobre = *xesfer. La Stele di Lemno Come già detto, alcuni autori antichi condivisero l’idea di un’origine orientale degli Etruschi. Ellanico, un altro storico, vissuto nel V secolo a.C., in un brano delle sue storie, sostiene che Ceare (attuale Cerveteri) in origine si chiamava Agylla e fu fondata dai Pelasgi, provenienti dalla Tessalia; quando poi i Lidi, al seguito di Tirreno, assalirono Agylla, uno degli assedianti si avvicinò alle mura e domandò il nome della città; dalle mura, uno dei Tessali, invece di rispondere, lo salutò con la parola “chaere”. Così i Tirreni, appena presa la città, le cambiarono nome in Caere. In seguito, gli studiosi sostenitori dell’origine orientale, affermarono che per la trasformazione dei villaggi villanoviani in città fortificate, avvenuta all’epoca dell’inizio della civiltà etrusca, sono state necessarie tecniche e abilità amministrative ben maggiori di quelle dimostrate dai villanoviani stessi; ne consegue che tali competenze furono necessariamente arrivate dall’esterno. Altri riscontri archeologici a favore di questa ipotesi sono le somiglianze trovate tra alcune tombe etrusche e alcune tombe dell’Asia minore, nonché alcuni aspetti della civiltà etrusca che sembrano più orientali che italici: il piacere del lusso, l’amore per le feste e per le danze, alcune pratiche come l’epatoscopia.
Più che a un’invasione in massa, avvenuta in un unico momento, si può anche pensare al graduale arrivo dall’esterno di gruppi della stessa popolazione, che a poco a poco si integrò con la base villanoviana portando i suoi usi e la sua cultura, in seguito adottati totalmente. Come riscontro archeologico a quest’ipotesi, nell’isola di Lemno, nei pressi della città di Kaminia, si può citare il ritrovamento di una stele funeraria recante un’incisione in una lingua non greca, che è stata interpretata solo grazie alla sua somiglianza con l’etrusco, segno di un collegamento con l’idioma in uso a Lemno nel VI sec. a.C., che pur non essendo la stessa lingua, probabilmente ha delle radici comuni.