Aspetti della vita, economia e tecnica:

La ricostruzione della vita che si svolgeva nelle case dei ricchi non presenta eccessive difficoltà. Si è già accennato alla posizione della donna che partecipa ai conviti e alle feste con perfetta parità di fronte all’uomo. In età arcaica le donne e gli uomini banchettano distesi sullo stesso letto: ed è probabilmente a questa usanza che risale l’affermazione di Aristotele (in Ateneo, 1,23 d) che “gli Etruschi mangiano insieme con le donne giacendo sotto lo stesso manto”. Si è anche supposto che Aristotele si riferisca ad una falsa interpretazione di alcuni sarcofagi sui quali appaiono i due coniugi giacenti sotto un manto simbolo di nozze. La cerimonia nuziale presso gli Etruschi comprendeva infatti il rito (conservato tuttora dagli Ebrei) della copertura degli sposi con un velo: come attesta il rilievo, di non dubbia interpretazione, di una umetta di Chiusi. Ma è possibile che l’uso del velo esistesse in realtà anche per i letti conviviali. Si presume comunque che i Greci, per un atteggiamento di incomprensione e di ostilità verso gli Etruschi forse risalente ad antiche rivalità politiche, trovassero argomento di scandalo nella libertà formale della donna etrusca, così diversa dalla segregazione della donna greca almeno nel periodo classico: e fosse quindi facile e quasi naturale attribuire alle etrusche i caratteri e il comportamento delle etère, le sole donne che ad Atene partecipassero ai banchetti con gli uomini. Nascevano così e si diffondevano - con quella facilità nell’accettare e ripetere notizie anche incontrollate specialmente sui costumi dei “barbari”, quasi come motivi letterari, che è propria del mondo classico - le dicerie sulla scostumatezza degli Etruschi, sulle quali insiste Ateneo (IV, 153 d; VII, 516 sgg.) e di cui si fa eco perfino Plauto (Cistellaria, Il, 3, 20 sgg.). A partire dal V-IV secolo le donne etrusche non partecipano più ai conviti distese sopra il letto come gli uomini, ma sedute, secondo l’usanza che resterà poi stabilmente diffusa nel mondo romano. Raffigurazioni di banchetti con più letti (generalmente tre, donde il romano triclinio), come quelle delle tombe tarquiniesi dei Leopardi o del Triclinio, ci presentano quadri pieni di naturalezza e di gioiosa semplicità. Non mancano cqnviti all’uso greco, con la presenza di soli uomini, culminanti anche in orge piuttosto sfrenate, con abbondanti libazioni e balli (tomba delle Iscrizioni a Tarquinia). I banchetti solenni, come del resto anche altre feste (giuochi, funerali, ecc.), sono regolarmente accompagnati dalla musica e dalla danza. Le pitture della tomba Golini di Orvieto ci portano anche nell ‘interno delle cucine dove si preparano i cibi per il banchetto, anche con la presenza del suono forse magico-propiziatorio di un suonatore di doppio flauto. Una notevole serie di rappresentazioni si riferisce a giochi e a spettacoli (tombe tarquiniesi degli Auguri, delle Olimpiadi, delle Bighe, del Letto Funebre, ecc., tombe dipinte e rilievi di Chiusi). È evidente che l’influsso ellenico domina su questo aspetto della vita etrusca; ma si ha l’impressione che il carattere agonistico e professionale dei giuochi e delle gare greche tenda a trasformarsi nel mondo etrusco in un divertimento spettacolare. Niente è più suggestivo ed interessante, a questo proposito, del piccolo fregio della tomba delle Bighe a Tarquinia, nel quale il pittore ha immaginato un grande campo sportivo o circo, visto spaccato secondo i due assi lungo e corto, con l’arena e le tribune lignee sulle quali trovano posto gli spettatori; nell’arena sono corridori con le bighe, cavalieri, coppie di lottatori e pugilatori, un saltatore semplice e con l’asta, un corridore armato (oplitodromo), giudici di gara ed altri personaggi vari; sulle tribune spettatori dei due sessi s’interessano nel modo più vivace all’esito delle gare, come mostra chiaramente la loro mimica concitata. Non è escluso che ad agoni sportivi partecipassero anche i membri delle famiglie più illustri. Va ricordato a tal proposito il gioco etrusco della Truia (ludus Troiae), che consisteva in una gara di corsa a cavallo lungo una pista intricata in forma di labirinto: esso è riprodotto nel graffito di un vaso etrusco arcaico e sappiamo che era ancora in uso al principio dell’impero come esercizio della gioventù romana. A gare equestri partecipavano assai probabilmente i giovani membri della stessa nobile famiglia proprietaria della tomba tarquiniese delle Iscrizioni. Il rapporto dei giochi agonistici con il mondo funerario è documentato, oltre che dall’evidenza delle tombe, dal passo di Erodoto (I, 167) relativo alle cerimonie espiatorie compiute dai Ceretani per il massacro dei prigionieri focei. Accanto agli spettacoli di natura agonistica debbono esser ricordati anche quelli mimici, musicali, acrobatici e farseschi che erano specificamente attribuiti ad attori etruschi ricordati con il nome di histriones o ludiones (la forma etrusca corrispondente sarebbe tanasa®, fhanasa) e che furono introdotti a Roma dall’Etruria nel 364 a.C. come «ludi scenici» (Livio, VII, 2-3). Di fatto esistono non poche testimonianze figurate di pitture, vasi dipinti. bronzetti, che raffigurano personaggi in costumi particolari, talvolta mascherati, che partecipano a vere e proprie rappresentazioni: le quali sembrano essere per altro di carattere assai vario, dall’esibizione popolaresca di saltimbanchi ed equilibristi (come nelle tombe dei Giocolieri di Tarquinia e della Scimmia di Chiusi), a qualcosa che può ricordare il dramma satiresco e porsi al limite di un’azione drammatica (ben diversa in ogni caso dal genere della tragedia di imitazione greca, senza dubbi tardivo, di cui si è già fatto cenno). Va poi ricordato un genere di giochi più cruento, nel quale è forse da riconoscere un’anticipazione dei combattimenti gladiatorii, che del resto la tradizione antica considerava di origine etrusca (Ateneo, IV, 153) e comunque provengono in Roma dalla Campania anticamente etruschizzata. Può darsi che i giochi in questione nascano dall’uso funerario, come attenuazione dei sacrifici umani che in molte civiltà primitive accompagnano la morte di principi o di personaggi illustri; giacche nella lotta cruenta è lasciata al più forte o al più abile dei contendenti la possibilità di scampare alla propria sorte. Un combattimento di tal genere sembra rappresentato nella tomba degli Auguri di Tarquinia: un personaggio mascherato e barbato, designato con il nome fhersu (corrispondente al latino persona, da maschera»), con un cappuccio, un giubbetto maculato ed un feroce cane al guinzaglio, assale un avversario seminudo e con il capo avvolto in un sacco e armato di una clava. Quest’ultimo è presumibilmente un condannato che lotta in condizioni di inferiorità; ma è anche possibile che egli riesca a colpire il cane con la clava e abbia quindi alla sua mercè l’assalitore. Sulla natura e sulla funzione del personaggio con cappuccio, barba e giubbetto maculato - sicuramente un essere umano e non un dèmone come si credette in passato - esistono tuttavia notevoli incertezze dal momento che egli ritorna più volte altrove in figurazioni pittoriche (tombe del Pulcinella, delle Olimpiadi, del Gallo, forse della Scimmia: un nano o un bambino) in atteggiamenti o in contesti che nulla hanno a che vedere con la gara mortale della tomba degli Auguri. Sembra veramente che si tratti piuttosto di una caratterizzazione generica, e che possa addirittura parlarsi della più antica «maschera» della storia dello spettacolo italiano. Passando ora a considerare i problemi della vita economica e produttiva dell’Etruria antica, diremo che è da supporre che in origine le risorse degli abitanti del paese fossero di natura prevalentemente agricola e pastorale (a parte, ovviamente, la raccolta, la caccia e la pesca); ma presto esse dovettero esser rivoluzionate, almeno in alcune zone, dallo sfruttamento delle ricchezze minerarie, ed ulteriormente integrate dall’attività dei traffici terrestri e marittimi. Un quadro sufficientemente esatto della produzione etrusca nell’ultima fase della storia della nazione ci è offerto dal noto passo di Livio (XXVIII, 45) sui contributi offerti a Roma dalle principali città etrusche annesse o federate per l’impresa oltremarina di Scipione l’Africano durante la seconda guerra punica. Ecco l’elenco delle prestazioni fatte secondo le principali risorse di ciascun distretto in materie prime e prodotti: Caere grano ed altri viveri Tarquinia tela per le vele delle navi Roselle legname per la costruzione delle navi e grano Populonia ferro Chiusi legname e grano Perugia legname e grano Arezzo armi varie in grande quantità, utensili e grano Volterra scafi di navi e grano Vediamo definirsi chiaramente nelle zone meridionali e centrali i di-stretti agricoli (Caere, Roselle, Chiusi, Perugia, Arezzo, Volterra), alcuni dei quali avvantaggiati anche dallo sfruttamento dei residui grandi boschi, mentre Populonia appare esplicitamente indicata come centro siderurgico ed Arezzo come città industriale. La zona mineraria etrusca abbraccia prevalentemente i territori di Vetulonia (con le colline metallifere) e di Populonia (con l’isola d’Elba); ma ad essa dobbiamo aggiungere anche il massiccio dei Monti della Tolfa, dove si hanno tracce di antiche miniere non più sfruttate. L ‘estrazione dei metalli (rame, ferro, in minor grado piombo e argento) da questi territori risale forse anche in parte alla preistoria, ma fu praticata sistematicamente a partire dall’inizio dell’età del ferro. La sua importanza per la storia dell’Etruria arcaica è grandissima e in un certo senso determinante, come già sappiamo. Alla valorizzazione di queste ricchezze naturali si ricollega presumibilmente lo sviluppo stesso delle città tirreniche; mentre la minaccia e la pressione continua dei Greci sulle coste dell’Etruria è un segno dell’importanza che si annetteva al possesso, all’influenza o soltanto alla vicinanza delle zone minerarie. Non ci sono noti gli aspetti tecnici dell’estrazione e della prima lavorazione dei minerali, se non da pochi indizi di natura archeologica - quali gallerie scavate in alcune località delle colline metallifere e strumenti in esse rinvenute, forni, scorie della fusione del ferro nella zona di Populonia - e da poche notizie antiche, dalle quali ricaviamo ad esempio che Populonia era il primo centro di fusione del metallo grezzo estratto dalle miniere dell’Elba e luogo del suo smistamento e diffusione, ma probabilmente non di lavorazione ulteriore. La produzione etrusca è in gran parte influenzata della ricchezza di metalli del territorio: ce ne accorgiamo dalle armi, dagli strumenti, dalle suppellettili di bronzo e di ferro che abbondano nelle tombe. Soprattutto notevoli sono le opere di metallotecnica artistica trovate a Vetulonia, a Vulci, a Bisenzio, nei dintorni di Perugia, a Cortona; la fonte di Livio già ricordata designa inoltre Arezzo (da cui proviene la famosa Chimera). Il ferro e il bronzo etrusco erano anche lavorati in Campania, donde probabilmente minerale grezzo e prodotti si diffondevano verso il mondo greco (Diodoro Siculo, v, 13). In Grecia erano rinomate le trombe etrusche di bronzo; un frammento di tripode del tipo di Vulci si rinvenne sull’acropoli di Atenen. Non debbono essere trascurati altri aspetti della produzione artigianale ed industriale, come la tessitura e la lavorazione del cuoio, specialmente per le calzature che erano note e certo largamente esportate nel mondo mediterraneo (Polluce, VII, 22, 86). La produzione corrente di stoffe, oggetti lignei, ceramiche (e soltanto di queste ultime ci resta nel nostro clima la totalità delle testimonianze, come già detto) fu inizialmente limitata ad un circuito familiare o di villaggio. Gli scambi si estesero con il progresso del lavoro artigianale specializzato e con la conseguente necessità di reciproche acquisizioni tra ambienti e centri diversi. Si passò quindi ai commerci esterni, terrestri e soprattutto marittimi, favoriti dalla domanda di oggetti di lusso e di prestigio e dall’offerta delle maggiori fonti di potenzialità economica, cioè dei metalli nell’ambito di una società aristocratica. Ma nel periodo aureo dei grandi traffici internazionali, cioè in età arcaica, la massa degli scambi avveniva, come già in precedenza accennato, essenzialmente per baratto di merci. Pezzi di rame grezzo (aes rude) e poi contrassegnato (aes signatum), come anche oggetti o spezzoni di oggetti lavorati, specialmente asce, poterono costituirsi quali intermediari di scambio; si aggiunga l’argento pesato secondo un piede ponderale originario del Mediterraneo orientale (detto, impropriamente, «piede persiano», di circa grammi 5,70), che rimarrà poi tipico del sistema ponderale delle monete etrusche. La coniazione di monete, che nel mondo greco risale al VII secolo, resterà fondamentalmente estranea alla concezione dell’economia etrusca: ciò che può considerarsi, se si vuole, un altro segno di primitivismo o di arcaismo. Di fatto le monete greche circolarono precocemente, insieme con gli altri più rozzi strumenti di scambio locali; e di esse si ebbe qualche imitazione, in oro (dubitativamente) e argento, in età arcaica. Ma di una vera e propria monetazione etrusca d’argento e d’oro non si può parlare se non a partire dalla metà del V secolo (cioè nell’età della relativa recessione economica) specialmente a Populonia, sotto l’influenza della monetazione greca dell’Italia meridionale e seguendo i sistemi ponderali etrusco e calcidese. Di fatto è la zona mineraria che sembra comporre in Etruria la moneta, per comprensibili ragioni di accelerazione e moltiplicazione di scambio. Soltanto più tardi, e non prima dell’affermarsi dell’egemonia romana alla fine del IV secolo, appariranno monete di bronzo fuse (aes grave) e coniate. Sappiamo che gli Etruschi avevano una tecnica progredita nel campo della ricerca, dello sfruttamento, del convogliamento delle acque. La ricerca delle acque era fatta dagli aquilices: specie di rabdomanti. Plinio (Nat. Hist. ,III, 20, 120) parla dei canali scavati dagli Etruschi nel basso Po: ed effettivamente in diverse zone dell’Etruria tirrenica si riscontrano sistemi di cunicoli di drenaggio che risalgono all’età preromana e dimostrano un’intensa applicazione di opere idrauliche a scopo di bonifica e di irrigazione. La vita nelle zone paludose della maremma e del basso Po non si spiegherebbe d’altro canto se fosse già stata diffusa, durante il periodo aureo della civiltà etrusca, l’infezione malarica: la quale dovette appunto cooperare, durante la tarda età ellenistica, ad affrettare la decadenza di molte città etrusche costiere. Al denso manto boschivo che copriva tanta parte dell’Etruria si suppone dovuto lo sviluppo di una tecnica che abbiamo ragione di ritenere caratteristica del mondo etrusco (anche se le fonti letterarie sono meno esplicite che per altre peculiarità): vogliamo dire l’arte della lavorazione del legno per la grande carpenteria architettonica e per l’ingegneria navale. Anche a questo proposito sarebbe errato trascurare i precedenti orientali e greci. Ma la facilità della materia prima deve pure aver avuto la sua importanza. In ogni caso le tombe scavate nella roccia ad imitazione di interni di case, specialmente quelle della necropoli di Cerveteri, suggeriscono le più varie e ardite soluzioni nell’impiego del legno per le costruzioni, soppiantato solo tardivamente dalla pietra. Va però tenuto conto della diffusione dei mattoni crudi nell’alzato delle pareti, in concomitanza con gli elementi lignei dei pilastri, delle porte e delle coperture. Un altro impiego fondamentale del legno è per le navi, da guerra ed onerarie, che costituirono lo strumento della potenza commerciale e politica etrusca, e che appaiono rappresentate in un grande numero di figurazioni di ogni età. Significativo, a proposito della tecnica costruttiva, è il ricordo degli scafi (interamenta) forniti da Volterra a Scipione come già si è visto, evidentemente fabbricati in uno degli scali marittimi volterrani. Per le forme evidentemente, come desumiamo dalle immagini, non ci si dovette scostare dai modelli greci; leggendaria è la notizia dell’invenzione dei rostri da parte di un Piseo figlio di Tirreno (Plinio, Nat. Hist.. VII, 56, 209); ma è curioso, ed unico nel suo genere, il modello di nave con prora a testa di pesce dalle cui fauci fuoriesce una lancia.