Arte finalità, condizionamenti e tendenze:

L’arte etrusca nacque dalla vita quotidiana e rimase sempre sostanzialmente vincolata al soddisfacimento delle esigenze da quella proposte. Essa fu pertanto strettamente legata, da un lato, alla struttura sociale, dall’ altro, alla sfera delle concezioni religiose e dell’ideologia funeraria. Non a caso, cioè non soltanto per le fortuite circostanze della loro conservazione e della loro riscoperta, le testimonianze che essa ha lasciato provengono nella stragrande maggioranza dalle aree dei santuari e da quelle cimiteriali. Questo significa che, tranne poche eccezioni, si trattò di un’ arte dalle caratteristiche di tipo artigianale (o di artigianato artistico), con tutto quello che ciò comporta e pur tenendo presente che la distinzione tra arte e artigianato non sempre trova valida rispondenza nel mondo antico. In ogni caso, non si può parlare per l’arte etrusca di un fenomeno autonomo né di finalità estetiche, e solo raramente ci si trova di fronte a manifestazioni che si potrebbero dire di “grande arte”, frutto meditato del lavoro di particolari individualità e opera personale di artisti consapevoli o di scuole ben definite e caratterizzate come tali. Si aggiunga il condizionamento dell’arte greca che fu sempre presente nella maggior parte dei temi, dei tipi, degli schemi compositivi e dei canoni stilistici. Al punto che, una volta superata la fase dei primordi ancora legata alle tradizioni d’origine preistorica o alle suggestioni ornamentalistiche del periodo orientalizzante, le successive fasi di sviluppo, a partire dal primo arcaismo e fino alla tarda età ellenistica, cioè dalla fine del VII secolo a quasi tutto il I secolo a.C., ripeterono praticamente quelle dell’arte greca. Il condizionamento fu tuttavia di natura prevalentemente formale ed esteriore. Essenzialmente decorativa, attenta al particolare e generalmente di sapore incolto e popolaresco; tesa alla spontaneità e all’immediatezza, disorganica ed espressiva, portata all’ enfatizzazione e alla tensione drammatica; conservatrice ma anche incostante, discontinua e incoerente: proprio per queste sue naturali tendenze (oltre che per la necessità di selezionare i modelli onde adattarli ai propri scopi), l’arte etrusca seppe trovare una sua via di fronte all’ insegnamento dei Greci. Sicché il confronto, più che soffermarsi sulla qualità, riguarda la diversità degli atteggiamenti e delle realizzazioni, cioè il modo di reagire degli artisti etruschi alle sollecitazioni e ai modelli che giungevano dal mondo greco. A seconda delle necessità e delle epoche, e quindi in relazione alle caratteristiche delle varie fasi dell’ arte greca. Così, dei modelli via via disponibili, gli Etruschi alcuni li ignorarono altri li assunsero facendoli propri e talvolta rielaborandoli, magari insistendo su motivi che nella stessa Grecia ebbero scarso rilievo o furono presto superati. Quanto ai canoni stilistici, ci furono momenti di consonanza e di partecipazione, come nel periodo arcaico (e specialmente nei confronti dell’arte ionica) del VI secolo a.C.: momenti di ripulsa e di rigetto o, più semplicemente, d’incomprensione, come nel periodo classico, tra il V e il IV secolo a.C.; momenti di sudditanza e di pedissequa imitazione, come nel periodo ellenistico, dal III al I secolo a.C. Non mancarono tuttavia atteggiamenti estranei, se non antitetici, alle concezioni figurative greche, soprattutto quando queste non erano congeniali alle tendenze espressive etrusche e quindi non sentite e incomprese. E furono proprio quelle tendenze, insieme alle finalità pratiche del quotidiano, che indussero gli Etruschi a trascurare, o a relegare in secondo piano, certe forme d’espressione artistica, come l’architettura e la statuaria, e a privilegiarne altre, come la coroplastica, ossia l’arte della creta, la bronzistica, a quella connessa, e le cosiddette arti minori, come la piccola plastica, la ceramica, l’oreficeria, la toreutica. Con risultati spesso di notevole perfezione tecnica e non dirado d’elevato valore formale.

Arte profana E’ proprio nelle arti “minori”, nella vastissima produzione di suppellettili, piccoli bronzi fusi e piccole terracotte con funzioni ornamentali, gemme incise e avori intagliati, che si espresse al meglio l’originalità e la creatività degli artisti etruschi. Particolare attenzione meritano gli specchi, trovati a centinaia nelle necropoli. Il modello più comune era quello tondo con il manico. Il retro della suprficie di bronzo era inciso, solitamente con soggetti mitologici provenienti dall’arte greca, oppure coperto di iscrizioni. Ricchissima e meritatamente famosa anche la produzione di monili ed oggetti in oro, nella quale gli etruschi dimostrarono un elevato grado di elaborazione tecnica, capace di sfruttare le possibilità espressive del metallo. Il periodo di massima fioritura fu tra la metà del VII e la fine del VI secolo a.C., a Vetulonia e Vulci. Nella tomba Regolini- Galassi, scoperta a Cere nel 1832, gli archeologi si trovarono davanti ad un gran numero di gioielli; grandi bracciali lavorati, fibule incise, un pettorale in oro sbalzato di 42 cm. conservato ai musei Vaticani.

Specchio riproducente la cerimonia del chiodo Anche nell’orificeria trionfò il gusto per il sovraccarico e gli effetti enfatici, sia con l’incontro di motivi ornamentali vegetali, figurati e geometrici, sia con l’impiego delle diverse tecniche di lavorazione, spesso combinate insieme. Tali tecniche comprendevano l’incisione, lo sbalzo, la fusione la filigrana e, soprattutto, la granulazione, consistente nell’applicare sulla superficie del metallo piccoli granelli d’oro saldati tra loro, moltiplicando così l’effetto dell’incidenza della luce.

Gioielli (V-VI sec) Collare con teste di Sileno, VI-V sec.

I monumenti architettonici Ben altra ricchezza di testimonianze dirette ci si offre per l’architettura e per le arti figurative: si tratta infatti degli stessi monumenti superstiti e dei resti materiali recuperati attraverso le scoperte archeologiche. Nonostante la distruzione di tante opere e manufatti antichi, questi documenti sono tali da offrirci una visione sufficientemente ampia dell’attività artistica degli antichi Etruschi nelle sue tendenze e nei suoi sviluppi. L’edilizia monumentale non può naturalmente valutarsi sul metro di quella dei Greci o dei Romani. L’impiego esclusivo di strutture murarie a blocchi di pietra s’incontra soltanto nelle opere militari e nelle tombe: per il resto, e cioè per gli edifici sacri e civili, esso appare limitato alle fondazioni, mentre per le parti elevate si adoperavano materiali più leggeri, quali il legno, il pietrame, i mattoni crudi, la terracotta. Ciò significa che di questi edifici non possediamo più che le piante e qualche elemento di decorazione; ma nonostante tutto è possibile raffigurarcene l’aspetto originario, sulla base dei modelli offerti dai sepolcri rupestri e dalle urne che ne imitano le forme o da piccole riproduzioni di destinazione votiva. Le strutture murarie offrono, a seconda dei tempi, dei luoghi e della qualità dei monumenti, una notevole diversità di materiale e di tecnica. Le pietre di più largo impiego sono i calcari, il travertino, le arenarie, il tufo, tutte di estrazione locale: l’assenza del marmo che ha tanta importanza nell’architettura greca, si deve al fatto che lo sfruttamento delle cave di Carrara non avrà inizio se non con l’età romana. Il genere delle murature varia dalla tecnica dei grandi blocchi semilavorati ed irregolari, quale si mostra, ad esempio, nella cinta di Vetulonia, a quella dei fini paramenti con piccoli blocchi squadrati che si riscontra nelle mura urbane delle Città dell’Etruria meridionale ed in altre costruzioni, specialmente funerarie. Ma non c’è in generale un’evoluzione delle strutture più rozze e primitive alle più raffinate: la muratura quadrata regolare si conosce e si impiega sin dalle fasi iniziali della civiltà etrusca; e le differenze paiono dovute piuttosto a particolari condizioni di materiale, di capacità delle maestranze, di fretta nella costruzione, ecc. Contrariamente a certe opinioni già diffuse tra gli archeologi, la tecnica poligonale vera e propria deve considerarsi estranea agli usi costruttivi degli Etruschi e tardivamente introdotta, dai primi coloni militari romani, nelle piazzeforti di Pyrgi, di Cosa, di Saturnia. L ‘uso, almeno parziale, dei mattoni crudi non soltanto nell’edilizia domestica ma anche nell’architettura militare sembra attestato a Roselle sin dalla fine del VII secolo; ciò rientra nel quadro di una tradizione struttiva che si va sempre più rivelando diffusa nel mondo mediterraneo sotto l’influenza greca; ed è probabile che a questa tecnica si riferiscano anche le notizie sulla cinta di mattoni della città di Arezzo. Notevole diffusione ha in Etruria il sistema delle coperture a falsa volta ed a falsa cupola con filari di blocchi sovrapposti in aggetto, di universale diffusione mediterranea; al quale si sovrappone, nelle fasi più recenti, la tecnica della volta reale a spinte, che appare in porte di città (Volterra, Perugia) ed in monumenti sepolcrali, preludendo alle strutture dominanti dell’architettura romana. In questa predilezione per la copertura a volta l’architettura etrusca continua, perfeziona e trasferisce in sede monumentale motivi di antica origine orientale che l’architettura greca classica tende invece generalmente a respingere come elementi estranei alla sua rigorosa concezione rettilinea, basata sulla struttura ad architravi. Fra i monumenti più notevoli dell’architettura militare ricordiamo le cinte di Tarquinia (e tratti superstiti di quelle, simili, di Veio, Caere, Vulci, ecc.), Volsinii, Roselle, Vetulonia, Volterra, Chiusi, Cortona, Perugia, Fiesole, Arezzo. Queste opere si datano generalmente tra il VI ed il III secolo, con ampliamenti e rifacimenti posteriori, dato che in generale rimasero efficienti durante i tempi romani e in qualche caso anche più tardi. Nonostante la diversità delle strutture, hanno in comune il carattere di muraglie continue, originariamente non intrammezzate da torri: avancorpi e rientranze si osservano soltanto in corrispondenza delle porte. Queste erano forse da principio architravate; ma nei grandiosi esempi superstiti della Porta dell’ Arco di Volterra e della Porta Marzia e della Porta “di Augusto” di Perugia appaiono coperte a volta e presentano in facciata elementi di decorazione architettonica o figurata a rilievo. L’aspetto antico di cinte urbane merlate e con porte ad arco ci è testimoniato anche da figurazioni di urne e sarcofagi. L’architettura funeraria si presenta con manifestazioni piuttosto eterogenee, per il fatto che essa rappresenta l’occasionale complemento o sviluppo costruttivo di tipi di sepolcri di origine od ispirazione diversa. La maggior parte delle tombe, anche a carattere monumentale, risulta infatti lavorata direttamente nella roccia sia che si tratti di vani scavati (che vanno dalle più modeste forme dei pozzetti e delle fosse primitive sino ai grandiosi e complessi ipogei con molti ambienti dell’età più matura), sia che si tratti di adattamenti esterni aventi l’aspetto di tumuli rotondi o corpi quadrangolari con terra sovrapposta o di facciate scolpite nella fronte di declivi rupestri. Tali opere, pur non avendo un carattere architettonico, si ricollegano strettamente all’architettura in quanto imitano spesso fedelmente le forme di edifici reali nel loro aspetto esteriore ed interiore, negli elementi decorativi e talvolta persino nelle rifiniture d’arredo e nelle suppellettili. Frequente è però anche la presenza di opere murarie, talvolta aggiunte ad integrazione delle pareti e delle coperture di roccia, altre volte costituenti per intero il monumento. Le camere sepolcrali costruite della fase più antica presentano coperture a falsa volta ed eccezionalmente a falsa cupola (come nella tomba di Casal Marittimo nel territorio di Volterra, o in quella recentemente scavata presso Quinto Fiorentino). In età più recente si hanno tombe con volta a botte di bella struttura (per es. la tomba del Granduca a Chiusi e l’Ipogeo di San Mannopresso Perugia). Il tipo monumentale del tumulo rotondo (con tamburo generalmente ricavato nella roccia come a Cerveteri e costruito come a Populonia) diviene a partire dal V secolo assai meno frequente, ma evolve, forse anche in contatto con l’architettura funeraria ellenistica, verso lo schema dei grandi mausolei circolari romani di età imperiale quali l’Augusteo e il Mausoleo di Adriano (per es. la così detta “Tanella di Pitagora” di Cortona). Non mancano sepolcri quadrangolari informa di tempietti, per esempio a Populonia. E va ricordato infine anche il tipo di tomba con basamento a zoccolo sormontato da grandi cippi troncoconici o da obelischi, noto soprattutto attraverso le figurazioni dei rilievi delle urne sepolcrali, ma attestato direttamente fuori d’Etruria, nel così detto sepolcro degli Orazi e Curiazi presso Albano Laziale. Un grandioso monumento di questo tipo con più obelischi adorni di campane è ricordato dalle fonti antiche come esistente a Chiusi, e identificato con la tomba del re Porsenna. I cippi funerari imitano in piccolo queste forme. L’architettura domestica e quella religiosa hanno origini e caratteristiche comuni. Delle forme assunte dalla casa si tratterà più avanti parlando della vita etrusca. Il tempio che da principio si identifica, come nel mondo paleo-ellenico, con la casa rettangolare con tetto a spioventi e senza portico (documentata da modellini votivi e dai resti di un edificio scoperto sull’acropoli di Veio) assume poi forme più complesse parzialmente parallele a quelle del tempio greco. Il tipo che Vitruvio (de archit. IV, 7) attribuisce agli Etruschi è caratterizzato da una pianta di larghezza poco inferiore alla lunghezza, con la metà anteriore occupata dal portico colonnato e la metà posteriore costituita da tre celle, per tre diverse divinità, o da una sola cella fiancheggiata da due alae o ambulacri aperti. Resti di monumenti scavati a Veio, a Pyrgi, ad Orvieto, a Fiesole, a Marzabotto dimostrano che questo schema ebbe effettivamente una vasta e durevole diffusione in Etruria dall’età arcaica sino a quella ellenistica: esso appare anche a Roma nel tempio di Giove Capitolino, la cui prima edificazione risale ai tempi della dinastia etrusca dei Tarquini. Ma senza dubbio si costruivano anche edifici sacri più vicini, nel loro schema, al tempio greco, e cioè con pianta rettangolare allungata e colonne in facciata (prostilo) o addirittura con colonnato continuo su tutti i quattro lati (periptero): esempi cospicui ne sono il tempio più antico di Pyrgi e quello dell’Ara della Regina a Tarquinia. L’ originalità dei templi etruschi non consiste comunque tanto nella loro concezione planimetrica quanto piuttosto nel materiale, nelle proporzioni e nelle forme dell’alzato, nel genere della decorazione. Si è già detto che, all’infuori delle fondazioni, essi dovevano essere costruiti di materiali leggeri, con impiego del legno per le ossature portanti e per la travatura. Ciò comporta uno sviluppo relativamente limitato in altezza (quale appunto risulta dalle misure del tempio “tuscanico” secondo Vitruvio), larghi intercolumni, tetto ampio con notevole sporgenza laterale delle gronde. La travatura lignea esige una protezione con elementi compatti ma leggeri: donde l’uso universale di rivestimenti di terracotta policroma, che si sviluppano in vivaci sistemi decorativi geometrici e figurati con placche di copertura longitudinale o terminale delle travi, cornici, ornati della estremità dei coppi (antefisse) e delle sovrastrutture del tetto (acroteri). Il frontone era in origine aperto, lasciando visibili in facciata le strutture della gabbia del tetto; solo più tardi si adottò il tipo del frontone chiuso, decorato con una composizione figurata come nei templi greci. Queste varie caratteristiche del tempio etrusco trovano indubbi riscontri nella primitiva architettura greca e, come si è detto, parziali paralleli nel tempio greco arcaico e classico. La differenza sta nel fatto che il tempio greco sin dal VII secolo a;C. tende a trasformarsi in un edificio monumentale pressoche interamente costruito di pietra, con una sua propria ed inconfondibile evoluzione delle forme architettoniche; mentre il tempio etrusco resta sostanzialmente fedele alle tradizioni dell’architettura lignea sino alla piena età ellenistica, accentuando, se mai, l’esuberanza decorativa dei rivestimenti di terracotta. I quali offrono, specialmente nel VI e V secolo, varietà di concezioni e sviluppi: per esempio nel tipo delle lastre di copertura longitudiriale dei travi che possono formare fregi figurati continui a rilievo di ispirazione greco-orientale (così detta “prima fase” o “fase ionica”) o possono invece presentare una semplice ornamentazione dipinta con forte sviluppo della sovrastante cornice in aggetto, come nei sistemi decorativi fittili della Grecia propria e delle colonie dell’Italia Meridionale e della Sicilia (“seconda fase” o “fase arcaica”). Quest’ultimo tipo si afferma a partire dalla fine del VI secolo, in coincidenza con il momento di maggiore splendore dello sviluppo dei templi etruschi, caratterizzato anche dalle antefisse a conchiglia, dalle decorazioni frontonali a rilievo distribuite sulle placche di rivestimento delle testate dei travi lunghi, dai grandi acroteri figurati: esempi caratteristici il tempio di Veio e i templi di Pyrgi. Lo schema decorativo così formato sarà poi seguito con poche modificazioni nei secoli successivi.

La sola novità rilevante è l’introduzione del frontone chiuso decorato con una composizione figurata unica alla maniera greca, di terracotta e in altorilievo; esso appare già forse nel V secolo, ma ci è noto soprattutto a partire dal IV secolo a Tarquinia, a Talamone, a Luni (“terza fase” o “fase ellenistica”). Parlando delle forme e dei rivestimenti del tempio etrusco, non si può trascurare il fatto fondamentale che i medesimi caratteri e sviluppi si riscontrano nei templi del territorio falisco e laziale e, sia pure con qualche differenza, in Campania: può parlarsi di una comune civiltà architettonica dell’Italia tirrenica a settentrione dell’area direttamente toccata dalla colonizzazione greca. L’affermarsi del tipo del tempio di pietra, in sostituzione delle tradizionali strutture lignee (sotto l’influsso greco, ma pur sempre con forme peculiari), avrà luogo progressivamente, sotto l’influsso dei modelli greci, nel corso del IV secolo e dell’età ellenistica. Il predominio di elementi di ispirazione arcaica anche in opere di età molto recente si osserva del resto in tutti i motivi della decorazione architettonica etrusca, quali appaiono nelle costruzioni di pietra ed in quelle di legno e terracotta, e nelle loro innumerevoli riproduzioni ed imitazioni dell’arte funeraria e votiva. Vitruvio parla di un “ordine tuscanico” distinto dagli ordini dorici, ionici e corinzio dell’architettura greca. Esso era caratterizzato da un tipo di colonna che si vede effettivamente impiegato nei monumenti romani e rappresenta una variante della colonna dorica, con la stessa forma di capitello ma con il fusto liscio e con un basamento. La sua origine etrusca è provata da testimonianze che risalgono all’età arcaica: di questa forma era, verisimilmente, la maggior parte delle colonne lignee dei templi e degli edifici civili. Si tratta in realtà di una sopravvivenza ed elaborazione del tipo detto “protodorico” (fornito di plinto sagomato, con fusto senza scanalature e sensibilmente rigonfio, con capitello a cuscino bombato), che nel mondo greco primitivo era stato prestissimo sostituito dalla colonna dorica vera e propria. Ma accanto a questo tipo vediamo diffuso in Etruria anche un genere di colonne e di pilastri con capitello a volute floreali, semplici e composite, che trova la sua ispirazione nei capitelli orientali siro-ciprioti e nei capitelli così detti “eolici” della Grecia orientale: genere, anch’esso, precocemente scomparso nel mondo greco, con l’affermarsi del capitello ionico. Modanature di impronta arcaica, con dadi, cordoni, “campane”, “gole”, appaiono dominanti nella sagoma di basamenti e coronamenti di edifici, altari, cippi, ecc. ; mentre la incorniciatura di porte e di finestre sottolinea gli stipiti sui lati del vano rastremato verso l’alto e il sovrapposto architrave sporgente che, in epoca più evoluta, si piega alle estremità nelle caratteristiche “orecchiette”. L’ornamentazione non figurata delle cornici, dei coronamenti e degli altri elementi delle sovrastrutture degli edifici appare domi!lata da motivi a foglie stilizzate, trecce, palmette e fiori di loto, spirali, meandri, ecc., di prevalente ispirazione ionica. Il sistema del fregio dorico con metope alternate a triglifi sembra diffondersi soltanto dopo il IV secolo; ma spesso, in luogo dei triglifi, s’incontrano veri e propri pilastrini.

Il problema dell’ «arte etrusca» Considerate le diverse categorie di monumenti artistici, resta da affrontare il problema più grosso, il «problema» per eccellenza: quello del loro significato estetico e storico. Gran parte delle opere che possediamo non ha, ovviamente, il carattere di creazione originale: rientra nel solco di tradizioni artigianali e riflette soltanto alla lontana le grandi linee di sviluppo della storia dell’arte. Ma esistono alcuni monumenti e gruppi di monumenti, nei quali si può ritenere presente l’impronta di una certa personalità artistica, più o meno spiccata. Si tratta di stabilire fino a che punto questa possibilità risponda a realtà, e cioè se veramente ci si trovi, in questi casi, di fronte a piccole o grandi creazioni; o invece si abbia pur sempre a fare con semplici imitazioni di modelli; ed in quale ambiente debbano eventualmente ricercarsi questi modelli. Il fatto più evidente è che la stragrande maggioranza dei temi, dei tipi, degli schemi compositivi della produzione artistica etrusca trova i suoi precedenti e la sua ispirazione nel mondo greco; e che tale dipendenza si estende normalmente anche alle forme stilistiche; cosicche lo sviluppo dell’arte in Etruria, dal primo arcaismo sino alla tarda età ellenistica, ripete sostanzialmente le fasi di sviluppo dell’arte greca. Però si notano anche differenze: nel senso che l’Etruria ignora certi motivi della produzione ellenica ed elabora invece diffusamente altri che in Grecia hanno scarso rilievo o appartengono a fasi stilistiche già superate; ne mancano indizi di atteggiamenti estranei, se non addirittura antitetici, alle concezioni figurative greche. C’è da chiedersi se e fino a che punto gli artisti etruschi abbiano inteso reagire e di fatto abbiano reagito, con soluzioni originali, alle dominanti formule greche. C’è da chiedersi poi se, realizzando una loro propria visione artistica, essi abbiano creato le premesse al formarsi di tradizioni locali distinte dall’arte greca; e su quale ampiezza e per quale durata queste tradizioni abbiano avuto la possibilità di imporsi. In altre parole, posta l’esistenza di spunti autonomi nella produzione-etrusca, ci domandiamo se tali spunti siano fatti effimeri e slegati o se esista tra loro una connessione; e se un’ipotetica «costante» nelle tendenze del gusto in Etruria attraverso i secoli debba attribuirsi a continuità storica o piuttosto ubbidisca ad una profonda predisposizione del popolo etrusco verso orientamenti espres- sivi differenti da quelli del popolo greco. Questi diversi interrogativi si riassumono, tutto sommato, in uno solo: fino a che punto ed in che senso possiamo parlare della esistenza di un’ , ‘arte etrusca”?. La posizione della critica nel secolo XIX fu, in proposito, negativa. La produzione etrusca era da considerare come un fenomeno provinciale dell’arte greca, con opere rozze e senza valore; mentre ogni trovamento di un qualche pregio artistico fatto in Etruria si attribuiva senz’altro a mano greca. Ma i nuovi orientamenti della critica e della storia dell’arte, affermatisi col principio del nostro secolo specie a seguito degli studi di A. Riegl, riconoscendo piena validità di espressione ad esperienze artistiche diverse da quella classica, aprirono la strada ad una comprensione di fenomeni stilistici del mondo antico per l’innanzi sottovalutati, quale appunto l’etrusco. Dall’analisi di singole opere d’arte di recente scoperta (come l’Apollo di Veio, come il “Bruto Capitolino”) si arrivò, più o meno cautamente, ad affermare l’originalità e l’autonomia dell’arte etrusca rispetto alla greca, per una sua diversa ed inconfondibile visione della forma. che trasoarirebbe evidente anche nell’imitazione degli schemi e dei tipi ellenici. Si parlò, in vero, addirittura di una peculiare disposizione dei popoli italici (non soltanto, quindi, degli Etruschi, ma più tardi anche dei Romani) a concepire la realtà secondo una immagine «illusionistica», «inorganica», immediata e fortemente individualizzata, di contro alla visione «naturalistica», «organica», «tipica» dell’arte greca. A questi punti di vista non sono mancate obiezioni critiche di un certo peso. Più di recente si è tornati anzi ad affermare che non esistono in Etruria vere opere d’arte se non sotto la diretta influenza delle forme greche; e che la «originalità» etrusco-italica si riduce a manifestazioni effimere di colorita abilità artigiana e popolaresca, incapaci di dar vita ad una tradizione (R. Bianchi Bandinelli). Il problema, dunque, resta ancora sostanzialmente aperto. Ma forse esso fu male impostato così dai negatori come dai sostenitori della originalità dell’arte etrusca. Si considerò infatti generalmente questo fenomeno in blocco, senza tener conto che esso abbraccia manifestazioni quanto mai varie, per la durata di almeno sette secoli, e che le trasformazioni avvenute nel corso di un così lungo periodo non riguardano soltanto l’Etruria e la Grecia, ma hanno una portata decisiva per tutto lo sviluppo dell’arte antica. È evidente che le prospettive mutano a seconda dei tempi; e parrebbe quindi logico esaminare il problema dell’«arte etrusca» riportandoci alla situazione di ciascun periodo, piuttosto che cercarne astrattamente una soluzione complessiva. Risulterà così che alle origini, più o meno tra il IX e il VII secolo, l’attività artistica dei centri etruschi si svolge parallela a quella di altri paesi mediterranei, compresa la Grecia, in un fluido e complicato accavallarsi di motivi di tradizione preistorica (specialmente evidenti nel vivace realismo della piccola plastica) e di influenze orientali che caratterizzano quella fase del gusto decorativo che chiamiamo appunto orientalizzante. È chiaro che per questi periodi non è ancora il caso di parlare di subordinazione all’arte greca. Diremo piuttosto che l’Etruria partecipa, nella sua posizione periferica verso occidente, alla estrema elaborazione di un’antica esperienza artistica mediterranea, pa!allelamente alla Grecia. Ma fatta eccezione per qualche spunto di originalità nella plastica funeraria (per esempio nelle espressive teste dei canopi di Chiusi), non vi è nessun accenno al formarsi di una valida tradizione artistica locale, o nazionale. Qui appunto sta la differenza decisiva, gravida di sviluppi futuri, rispetto alla Grecia che, precisamente in questa età cruciale, andava superando con vigoroso impeto creativo le formule del vecchio mondo ed aprendo una nuova pagina nella storia dell’arte universale. Non sorretta da una propria tradizione, fatalmente l’Etruria era destinata a cadere nell’ orbita della esperienza artistica greca, la cui capacità di attrazione, oltreche nel fascino innovatore e nella intrinseca superiorità di valori estetici, consisteva anche nella sua amplissima diffusione territoriale dalla madrepatria alle colonie d’Italia e di Sicilia. Ciò avvenne effettivamente almeno dagli inizi del VI secolo; e dobbiamo ritenere che le influenze dell’arcaismo greco sull’Etruria nel campo artistico non consistessero soltanto nella importazione di oggetti e di modelli, ma anche nella diretta attività di artefici greci nelle città etrusche. Eppure proprio in questo periodo, nel VI e nei primi decenni del V secolo, la produzione d’arte in Etruria si manifesta con un rigoglio meraviglioso e, per certi aspetti, insuperato, nell’architettura templare, nella plastica, nella bronzistica, nella pittura, negli oggetti «minori» decorati: con opere numerosissime, di tecnica raffinata e di alto livello stilistico, non prive di un certo «carattere» peculiare che le rende sovente riconoscibili come prodotti etruschi o di ambiente etrusco. Il dilemma originario (dipendenza o autonomia ?) si propone qui ora con aspetti tanto più delicati, quanto più i fatti sembrano condurre verso un giudizio apparentemente contraddittorio, che giustifica le incertezze dei critici moderni: nel senso che queste opere pur essendo «etrusche» non cessano per ciò stesso di esser «greche». Affermazione che potrebbe sembrare paradossale; ma non lo è, purche ci si sforzi di sbarazzarci dello schema mentale di «arte nazionale», che nel caso particolare non è applicabile. Dobbiamo in verità tener presente che l’arte greca arcaica non rappresenta un fenomeno rigidamente unitario e stilisticamente conseguente; bensì piuttosto il risultato della elaborazione locale di centri quanto mai vari, numerosi e dispersi nello spazio, con correnti vivaci, multiformi, mutevoli che si diffondono, si trasmettono, s’intersecano. In questo quadro, essenzialmente regionalistico, trovano posto anche territori parzialmente ellenizzati o non greci ma sotto l’influenza della civiltà greca: quali, ad esempio, in oriente Cipro, la Licia, la Caria, la Lidia, la Frigia, a settentrione la Macedonia e la Tracia, in occidente l’Etruria. Questi paesi non sono soltanto «province» recettive che subiscono passivamente l’impronta delle creazioni del genio greco; ma partecipano essi stessi, come «regioni» di una vasta comunità civile, alla elaborazione dell’arte arcaica, secondo le circostanze, le particolari esigenze, le capacità: e pertanto con proprie caratteristiche nell’ambito della più vasta unità periellenica. Nel caso dell’Etruria le peculiarità «regionali» della produzione d’arte arcaica potrebbero indicarsi nei seguenti motivi principali: 1) esigenze religiose e funerarie che predispongono l’attività figurativa ad una rappresentazione concreta, immediata, veristica della realtà; 2) sensibili persistenze di schemi, tecniche e tradizioni formali della precedente fase «mediterranea» ed orientalizzante; 3) relazioni dirette e fortissime con le esperienze artistiche del mondo greco-orientale, e cioè dei centri eolici e ionici delle coste e delle isole dell’ Asia Minore occidentale: tali da determinare per molti decenni (fra la metà del VI e il principio del V secolo) quella impronta, sostanzialmente unitaria, della cultura figurativa in Etruria che suoI definirsi appunto come arte ionico-etrusca; 4) manifestarsi, nell’ambito dell’attività artistica locale, di rilevanti personalità, di artisti greci e locali e di scuole di alto livello (bronzisti di Vulci e di Perugia, pittori come il maestro della Tomba del Barone a Tarquinia, modellatori in terracotta di Veio come l’artefice dell’«Apollo» e i suoi seguaci, ecc.), cui difficilmente potremmo negare una autentica, origi- nale ed a volte vigorosissima genialità creativa.

La prospettiva storica muta completamente nella prima metà del V secolo. La Grecia passa dall’arte arcaica all’arte classica con un processo di fondamentale importanza per la storia della civiltà umana. Ma l’attività dei grandi maestri greci tende a farsi stilisticamente più serrata, acquista un carattere più «nazionale», si concentra specialmente attorno ad Atene e alle città del Peloponneso. Anche per motivi d’ordine politico-economico le regioni periferiche declinano. L’Etruria resta isolata. Lo spirito della classicità, in quanto realtà di un momento creativo irripetibile ed inimitabile, non trova rispondenza del mondo etrusco, dove, tra l’altro, le felici condizioni storiche che avevano favorito la fioritura artistica dell’arcaismo sono venute a cessare, con l’inizio di un lungo periodo di depressione e di decadenza. Vediamo così per tutta la durata del Ve fino all’inoltrato IV secolo perdurare motivi e formule di tradizione arcaica o ispirate all’arte greca di “stile severo”, cioè della fase di passaggio dall’arcaismo alle forme classiche. Il fenomeno dell’attardamento proprio dei paesi marginali (come, ad esempio, nella contemporanea arte «subarcaica» di Cipro) si manifesta con una certa evidenza. La penetrazione delle influenze classiche è parziale e stentata. In questo ambiente privo di una tradizione unitaria ed accreditata, come già nella fase delle origini, la vitalità artistica si palesa soltanto in qualche effimero spunto di originalità espressiva; mentre nel campo della tecnica artigiana continua, particolarmente attiva, la produzione dei bronzisti. Una intensa ripresa di contatti artistici fra Grecia ed Etruria ha luogo a partire dal IV secolo e si continua per tutta l’età ellenistica, confondendosi alla fine con il fenomeno, altrimenti ben noto, del trionfo dell’ellenismo nell’Italia romana della fine della repubblica e del principio dell’impero. Ma l’atteggiamento dei figuratori etruschi rispetto all’arte greca non sembra più quello dei tempi arcaici. Non si può più parlare della elaborazione, in qualche modo originale di un patrimonio comune: si tratta piuttosto della imitazione, più o meno fedele e riuscita, di modelli «stranieri». Non si accolgono soltanto forme e singoli motivi tipologici, ma si riproducono intere composizioni, specialmente da prototipi della grande pittura, ad ornamento di edifici e di oggetti. Per quest’ultima fase di produzione potrebbe giustificarsi il concetto dell’Etruria come «provincia» del mondo greco (ciò che equivale alla negazione di una sua originalità artistica). Occorre però tener conto di un altro aspetto, completamente diverso e di gran lunga più importante, dell’attività figurativa etrusca di età ellenistica. In singoli monumenti o in gruppi di opere, specialmente dell’arte funeraria, vediamo aparire motivi e soluzioni stilistiche decisamente contrastanti con il gusto classico: strutture compatte e geometrizzanti, forme «.incompiute», sproporzioni, esasperazioni di particolari espressivi, ecc. Ci si può chiedere se e fino a che punto queste manifestazioni siano da spiegare come sopravvivenze artigianali di remote formule arcaiche, favorite dall’immobilismo rituale del mondo religioso etrusco, o come improvvisazioni popolaresche senza conseguenze, o addirittura come casuali effetti di una tecnica manuale scadente. Ma si può anche pensare a riflessi seppure indiretti dell’attività di artisti che, accogliendo antichissime assuefazioni locali e reagendo ai modelli greci secondo il proprio temperamento, abbiano tentato nuove forme di espressione. Questa ipotesi diventa certezza nel campo della ritrattistica, che ci si rivela con au- tentiche ed originali opere d’arte (grandi bronzi, pitture, ecc.) e con innumerevoli prodotti secondari (coperchi di sarcofagi, terrecotte), i quali mostrano a loro volta il formarsi di una salda tradizione locale attorno all’attività dei maestri maggiori. In contrasto con il ritratto greco, al quale pure originariamente si ispira (nel IV secolo) e talvolta si richiama (nel corso dell’età ellenistica), il ritratto etrusco tende a realizzare il massimo della concretezza espressiva per ciò che concerne le fattezze e, in un certo senso, anche il «carattere» individuale, prescindendo dalla coerenza organica delle forme naturali, ma accentuando gli elementi essenziali attraverso l’impiego semplice, rude, discontinuo e a volte violento delle linee o delle masse. Con questo possiamo dire che è nato un nuovo stile, una nuova tradizione artistica, effettivamente definita ed autonoma rispetto al mondo greco: una tradizione che è «etrusca», ma anche, più genericamente «italica», perchè il suo sviluppo si continua, di là dal tramonto dell’Etruria come nazione, nell’arte dell’ltalia romana e del mondo occidentale sotto l’impero. Tale visione «espressionistica» della realtà, specialmente nel ritratto, ma anche in altri temi d’arte, perdurerà vitale nelle correnti di produzione popolare dei primi secoli dell’impero, si diffonderà nell’arte provinciale europea, riaffiorerà impetuosamente nella grande arte romana aulica della fine del II e del III secolo d.C., costituirà una delle componenti più significative della civiltà artistica della tarda antichità e del medioevo. La Religione Introduzione Il pantheon etrusco Lo spazio sacro L ‘al di là Forme del culto Il culto degli dei e dei defunti La “disciplina etrusca” L’interpretazione dei fulmini e delle viscere L’osservazione dei prodigi Libri Fulgurales L’arte della divinazione Il rito di fondazione Le pratiche rituali Il rituale funerario Il culto dei morti.

Introduzione Gli autori latini erano concordi nel definire gli etruschi un popolo religiosissimo esperto nell’arte divinatoria. Ebbero infatti un’articolata letteratura religiosa, oggi purtroppo irrimediabilmente perduta. Esistevano una serie di rigide regole che determinavano il rapporto tra gli dèi e gli uomini (quella che costituiva la “disciplina etrusca”, ossia scienza etrusca), quindi sul rito e sull’interpretazione della volontà divina. Di queste norme possiamo farci solo un’idea attraverso alcuni passi di Cicerone, Plinio il Vecchio, Livio o Seneca (che si rifacevano a traduzioni che non ci sono pervenute) e tramite rarissimi documenti etruschi come la “mummia di Zagabria” o il “fegato di Piacenza”. Sappiamo inoltre che quella etrusca fu una religione rivelata attraverso le profezie di esseri superiori come il fanciullo Tagete e la ninfa Vegoe o Vegonia. Fra gli etruschi delle origini la divinità appare sempre in modo molto impreciso, sia nell’aspetto che nelle mansioni ed è ragionevole pensare che in principio vi fosse un’unica entità divina che si manifestava in molteplici modi, assumendo connotati diversi. Tra l’VIII e il VI secolo a.C. si assiste alla trasformazione della religione etrusca. Dalla Grecia vennero importate in Etruria nuove divinità; quelle indigene assunsero figura umana e col tempo ereditarono le caratteristiche e le mansioni degli dèi dell’Olimpo classico.

Il pantheon etrusco Le più antichità divinità degli etruschi rappresentavano le forze della natura, distruttrici e creatrici al tempo stesso: Tarconte era il dio della tempesta, distruttore ma anche dispensatore di benefica pioggia; Velka era il dio del fuoco e, insieme, della vegetazione. Sommo dio dell’Etruria - dice Varrone - era Velthune (in latino Vertumnus o Voltumna), il multiforme, che rappresentava l’eterno mutare della stagioni ed era adorato nel santuario federale di Volsinii. All’antico pantheon appartenevano anche gli dèi Selvans (Silvano) e Ani (poi Giano) e la dea Northia, divinità probabilmente del fato. Dal VII secolo a.C. molte divinità di fondo originariamente etrusco vennero assimilate agli dèi olimpici: la divinità superiore Tinia (o Tin), rappresentata sempre col fulmine, fu l’equivalente di Zeus ossia Juppiter (Giove); lo stesso avvenne con Uni, compagna di Tinia, che divenne Hera, ossia la Iuno latina (Giunone). Turan, la dea dell’amore, fu assimilata ad Afrodite e quindi alla Venus (Venere) latina; Menerva ad Athena (Minerva); Maris ad Ares (Marte); Nethuns a Poseidon (Nettuno); Turms a Hermes (Mercurio); Fufluns a Dionisio (Bacco); Sethlans a Efesto (Vulcano); di Castor e Pollux (Castore e Polluce, i Dioscuri) diventati Castur e Pultuce, ecc.. Ci furono anche dèi nuovi, importati direttamente dal mondo greco, che conservarono il loro nome appena etruschizzato: Artemis (ossia Diana) divenne Aritimi, Apollon (Apollo) fu chiamato Apulu, Heracles (Ercole) cambiò in Hercle. Controversa è l’origine etrusca delle “triadi” che conosciamo con certezza soltanto nel mondo romano: non è chiaro se la triade capitolina Giove-Giunone-Minerva corrisponda a Tinia-Uni-Menerva. Di sicura origine greca sono invece le coppie (“diadi”), come quella degli dèi infernali Ade e Persefone (in etrusco Aita e Phersipnai). Gli Etruschi credevano nell’ineluttabilità del destino, al limite potevano solo rendere più piacevole la loro permanenza terrena, per questo motivo compivano feste e riti magici. Credevano nell’aldilà, in particolare nell’ inferno, che aveva una porta di accesso, detta mundus, sorvegliato dalla terribile figura del demone Tuchulcha, mostro con orecchie d’asino, il muso di avvoltoio e i capelli fatti da serpenti. Questa figura fa maggiormente la sua presenza nella fase di declino della cultura etrusca, caratterizzata dalla presenza di morte e persecuzioni. Il demone degli inferi era Charun, che accompagna i morti nell’aldilà, da cui si rievoca la figura di Caronte, portava indosso un mantello ed aveva in mano un martello, simile a quello impiegato oggi per la sepoltura del Papa, con il quale si tocca tre volte la tempia del pontefice defunto. Un gioco funebre caratteristico è quello legato al mito di Phersu, da cui ha origine la parola “persona”, che aizza un cane contro una persona con la testa coperta da un sacco, che lentamente viene legata. Il cane sbrana la persona e sta a testimoniare l’ineluttabilità del destino. Le tombe rappresentavano le scene di vita quotidiana: gioia, feste, pranzi e, negli ultimi anni, dolore e terrore. Adottarono un calendario introdotto dai Tarquini, con influenze mesopotamiche, e poi modificato da Cesare, con l’aiuto sempre di tirreni. In esso si ricordavano feste e appuntamenti sacri. Suddivisero la loro era in dieci saeculum dopo dei quali ci sarebbe stata la fine della civiltà tirrenica, come in realtà fu confermato dalla storia.

Lo spazio sacro Lo spazio “sacro”, orientato e suddiviso, risponde ad un concetto che in latino si esprime con la parola templum. Esso riguarda il cielo, o un’area terrestre consacrata - come il recinto di un santuario, di una città, di un’acropoli, ecc. -, ovvero anche una superficie assai più piccola (ad esempio il fegato di un animale utilizzato per le pratiche divinatorie), purchè sussistano le condizioni dell’orientamento e della partizione secondo il modello celeste. L’orientamento è determinato dai quattro punti cardinali. congiunti da due rette incrociate, di cui quella nord-sud era chiamata cardo (con vocabolo prelatino) e quella est-ovest decumanus nella terminologia dell’urbanistica e dell’agrimensura romana che sappiamo strettamente collegate alla dottrina etrusco-italica. Posto idealmente lo spettatore nel punto d’incrocio delle due rette, con le spalle a settentrione, egli ha dietro di se tutto lo spazio situato a nord del decumanus. Questa metà dello spazio totale si chiama appunto «parte posteriore» (pars postica). L’altra metà che egli ha dinnanzi agli occhi, verso mezzogiorno, costituisce la «parte anteriore» (pars antica). Una analoga bipartizione dello spazio si ha nel senso longitudinale del cardo: a sinistra il settore orientale, di buon auspicio (pars sinistra o jamiliaris); a destra il settore occidentale, sfavorevole (pars d extra o hostilis). La volta celeste, così orientata e divisa, s’immaginava ulteriormente suddivisa in sedici parti minori, nelle quali erano le abitazioni di diverse divinità. Questo schema appare riflesso nelle caselle del bordo esterno (appunto in numero di sedici) e nelle caselle interne (ad esse corrispondenti, seppure in maniera non del tutto chiara) del fegato di Piacenza. Tra i numi dei sedici campi celesti, citati da M. Cappella, e i nomi divini in scritti sul fegato esistono indubbie concordanze, ma non una corrispondenza assoluta, perche l’originaria tradizione etrusca pervenne presumibilmente alterata nelle fonti del tardo scrittore romano, con qualche spostamento nelle sequenze. Ciò nonostante è possibile ricostruire un quadro approssimativo del sistema di ubicazione cosmica degli dèi secondo la dottrina etrusca. Esso ci mostra che le grandi divinità superiori, fortemente personalizzate e tendenzialmente favorevoli, si localizzavano nelle plaghe orientali del cielo, specie nel settore nord-est; le divinità della terra e della natura si collocavano verso mezzogiorno; le divinità infernali e del fato, paurose ed inesorabili, si supponevano abitare nelle tristi regioni dell’occaso, segnatamente nel settore nord-ovest, considerato come il più nefasto. La posizione dei segni che si manifestano in cielo (fulmini, volo di uccelli, apparizioni prodigiose) indica da qual nume proviene agli uomini il messaggio e se esso è di buono o di cattivo augurio. Indipendentemente dal punto di origine, una complicata casistica riguardante le caratteristiche del segnale (per esempio la forma, il colore, l’effetto del fulmine, o il giorno della sua caduta) aiuta a precisarne la natura: se si tratti cioè di un richiamo amichevole, o di un ordine, o di un annuncio senza speranza e così via. Lo stesso valore esortativo o profetico hanno le speciali caratteristiche presentate dal fegato di un animale sacrificato, preso in esame dall’aruspice, secondo una corrispondenza delle sue singole parti con i settori celesti. Così l’«arte fulguratoria» e l’aruspicina, le due forme tipiche della divinazione etrusca, appaiono strettamente collegate; ne fa meraviglia che esse possano essere state esercitate da un medesimo personaggio, come quel L. Cafatius di cui si rinvenne a Pesaro l’epitafio bilingue e che fu appunto haruspex (in etrusco netsvis) e fulguriator (cioè inrerprete dei fulmini: in etrusco trutnvt frontac o trutnvt?). Uguali norme devono aver presieduto all’osservazione divinatoria del volo degli uccelli, come intravvediamo specialmente da fonti umbre (Tavole di Gubbio) e latine. A tal proposito ha speciale importanza lo spazio terrestre d’osservazione, e cioè il templum augurale, con il suo orientamento e le sue partizioni, cui senza dubbio si ricollega la disposizione non soltanto dei recinti sacri, ma dello stesso tempio vero e proprio, cioè l’edificio sacro contenente il simulacro divino, che in Etruria appare di regola orientato verso sud o sud-est, con una pars antica che corrisponde alla facciata ed al colonnato ed una pars postica rappresentata dalla cella o dalle celle. E del pari le regole sacre dell’orientamento si osservano (almeno idealmente) nella planimetria delle città (concreto esempio monumentale è Marzabotto in Emilia), e nella partizione dei campi. In tutte queste concezioni e queste pratiche, come in generale nelle manifestazioni rituali etrusche, si ha l’impressione, come già accennato, di un abbandono, quasi di una abdicazione dell’attività spirituale umana di fronte alla divinità: che si rivela nella duplice ossessione della conoscenza e dell’attuazione della volontà divina, e cioè da un lato nello sviluppo delle pratiche divinatorie, da un altro lato nella rigida minuziosità del culto. Così anche l’adempimento o la violazione delle leggi divine, nonche le riparazioni attuate attraverso i riti espiatorii, sembrano essere soprattutto formali, al di fuori di un autentico valore etico, secondo concezioni largamente diffuse nel mondo antico, che però appaiono soprattutto accentuate nella religiosità etrusca. Ma è possibile che almeno gli aspetti più rigidi di questo formalismo si siano definiti soltanto nella fase finale della civiltà etrusca, e precisamente nell ‘ambito di quelle classi sacerdotali le cui elaborazioni rituali e teologiche trovarono la loro espressione nei libri sacri, forse favorite dal desiderio dei sacerdoti stessi di accentrare nelle loro mani l’interpretazione della volontà divina e quindi la direzione della vita spirituale della nazione. Un altro aspetto, che si ricollega alla mentalità primitiva degli Etruschi, è l’interpretazione illogica e mistica dei fenomeni naturali, che persistendo sino in età molto recente viene a contrastare in maniera drammatica con la razionalità scientifica dei Greci. A questo riguardo è particolarmente significativo e rivelatore un passo di Seneca (Quaest. nat., II, 32, 2) a proposito dei fulmini: Hoc inter nos et Tuscos...interest: nos putamus, quia nubes collisae sunt, fulmina emitti,. ipsi existimant nubes collidi, ut fulmina emittantur,” nam, cum omnia addeum referant, in ea opinionesunt, tamquam non, quiafactasunt, significent, sed quia significatura sunt, fiant. (La differenza fra noi [cioè il mondo ellenistico-romano] e gli Etruschi... è questa: che noi riteniamo che i fulmini scocchino in seguito all’urto delle nubi; essi credono che le nubi si urtino per far scoccare i fulmini; tutto infatti attribuendo alla divinità, sono indotti ad opinare non già che le cose abbiano un significato in quanto avvengono, ma piuttosto che esse avvengano perche debbono avere un significato...).