La letteratura ed i libri:

Per molti aspetti la civiltà degli Etruschi, pur appartenendo ad un’età pienamente storica, deve essere considerata e studiata alla stregua di una civiltà preistorica, vale a dire essenzialmente nelle sue testimonianze esteriori e materiali. Manca infatti la luce diretta di una grande tradizione letteraria originale che ci consenta di penetrare profondamente nel pensiero, nei sentimenti e nelle concezioni di vita di questo popolo, come invece è possibile per altre genti del mondo classico. Le notizie indirette, collaterali o tardive, che scrittori greci e romani ci hanno lasciato sull’Etruria antica e gli stessi documenti scritti etruschi (che consistono per lo più di brevi iscrizioni, non tutte facilmente interpretabili) offrono senza dubbio preziosi elementi di informazione: lo si è visto a proposito dell’organizzazione politico-sociale e della religione. Ma essi non possono in nessun modo compensarci della mancanza di una letteratura nazionale con opere poetiche, storiche, filosofiche, quali ci sono state conservate per la Grecia e per Roma. Ciò per altro non significa che gli Etruschi non abbiano avuto una loro propria letteratura. Il fatto che essa non sia giunta fino a noi non è un argomento valido per escluderla. Noi possediamo la letteratura greca e quella latina quasi esclusivamente perche esse ci furono tramandate attraverso una tradizione ininterrotta, di copista in copista, durante i secoli del medioevo (i testi antichi su papiri dissotterrati dagli archeologi e i documenti epigrafici hanno una importanza relativamente secondaria). Ma se le opere degli scrittori classici furono copiate e trasmesse fino ai tempi moderni, ciò si deve al fatto che esse erano scritte in lingue universalmente note e vive (a parte ogni altra considerazione sull’importanza essenziale di queste opere per la costruzione stessa della cultura del mondo occidentale). Viceversa gli scritti originali dei popoli dell’ltalia preromana, tra cui gli Etruschi, avevano perduto ogni interesse sin dall’età romana imperiale, essendo redatti in lingue non più parlate e presumibilmente incomprensibili a tutti, fatta forse eccezione per qualche erudito. È chiaro che a nessuno poteva venire in mente di ricopiarli e conservarli per le generazioni future. Una certa forma di attività letteraria degli Etruschi è, in vero, testimoniata positivamente, per quanto in modo indiretto, dal ricordo che ne sopravvive nelle fonti greco-latine. Si tratta di notizie frammentarie che riguardano soprattutto I’ esistenza di libri a contenuto religioso, conosciuti attraverso traduzioni o compendi negli ambienti sacerdotali ed eruditi romani. Sappiamo che essi erano classificati in tre fondamentali raggruppamenti, sotto il nome di Libri Haruspicini, Libri Fulgurales e Libri Rituales. I primi trattavano della divinazione mediante l’esame delle viscere degli animali; i secondi contenevano la dottrina dei fulmini. Quanto ai Libri Rituali, sembra che essi abbracciassero una materia assai più vasta e complessa, riguardante le norme del culto, le modalità per la consacrazione dei santuari, per la fondazione delle città, per la divisione dei campi, gli ordinamenti civili e militari, ecc.; comprendevano inoltre scritti speciali sulla divisione del tempo e sui limiti della vita degli uomini e dei popoli (Libri Fatales), sul mondo dell’oltretomba e sui riti di salvazione (Libri Acherontici) e infine sulla interpretazione dei prodigi (Ostentaria). La tradizione etrusco-romana tende ad attribuire a queste opere una origine antichissima e veneranda: tanto che una parte di esse era addirittura riferita agli insegnamenti del genietto Tagete (Libri Tagetici: corrispondenti, per quanto sappiamo, ai Libri Aruspicini e agli Acherontici) o a quelli della ninfa Vego(n)ia o Begoe, cui si assegnavano i Libri Fulgurali e gli scritti di agrimensura contenuti nei Libri Rituali. In sostanza si credeva in una loro ispirazione divina, facendone risalire l’origine ad una specie di primordiale “rivelazione” che si identificava con le origini stesse della civiltà etrusca. E non è da escludere che la raccolta dei libri sacri, quale si conosceva neg.i ultimi secoli della vita del popolo etrusco e quale fu, almeno parzialmente, tradotta in latino, comprendesse elementi di formazione assai antica. Ma nel complesso il carattere essenzialmente normativo degli scritti sembra riflettere piuttosto una fase evoluta e forse finale dello sviluppo spirituale e religioso della società etrusca. Si può immaginare che la loro elaborazione definitiva e, per così dire, “canonica” abbia avuto luogo nell’ambito di ristrette cerchie sacerdotali, come l’ordine dei sessanta aruspici fiorente ancora a Tarquinia in età romana: un mondo al quale senza dubbio appartenne quel Tarquitius Priscus (o Tuscus ?), al quale la tradizione romana attribuiva la composizione, la volgarizzazione e la traduzione in latino di diversi libri sacri. Con questo siamo portati a considerare la natura stessa della letteratura religiosa etrusca. Essa aveva probabilmente un aspetto vario ed eterogeneo, con parti poetiche o almeno redatte metricamente (carmina) ed altre minuziosamente rituali e prescrittive: delle quali ultime è possibile formarsi direttamente un’idea considerando testi originali etruschi superstiti, quali il manoscritto della mummia di Zagabria o la tegola di Capua. Si è già, anzi, accennato ad un’ eventuale connessione fra il rituale funerario di Capua e i Libri Acherontici. Nel suo complesso il corpo dei libri sacri doveva avere una ispirazione fondamentale religiosa, ma nello stesso tempo anche un certo carattere giuridico. Era un trattato di dottrine sacrali e insieme una costituzione ed una collezione di leggi, anche profane (ius Etruriae). Carattere del tutto particolare, profetico e insieme etico-giuridico, ha il frammento di testo tramandato dai gromatici latini con l’insegnamento della ninfa Vegoia (cioè la Lasa Vecui) ad Arunte Veltimno (che sarà stato in etrusco un Arnth Veltimna, presumibilmente di Chiusi o di Perugia), in cui si parla di punizioni per appropriazioni di terre altrui mediante lo spostamento dei segnali di confine, da parte di servi o anche con l’acquiescenza dei loro padroni: punizioni consistenti nell’insorgere di morbi e in catastrofi naturali, minacciate verso la fine dell’VIII secolo (naturalmente etrusco, che secondo attendibili computi di altre fonti sarebbe da collocare nell’anno 88 a.C.). Il passo termina con l’esortazione: Disciplinam pone in corde tuo (metti nel tuo cuore la disciplina). Si suppone che lo scritto sia stato ispirato in età sillana da ambienti conservatori etruschi di fronte al pericolo di riforme agrarie e di sovvertimenti sociali. Resta il problema se gli Etruschi abbiano avuto altre forme di attività letteraria e sino a qual punto tali manifestazioni si siano svolte in modo autonomo rispetto alla letteratura sacra. L’esistenza di documenti annalistici o storici sembra accertata dal ricordo di Tuscae historiae citate da Varrone (Censorino, de die nat., 17, 6). Mancano invece del tutto riferimenti ad una narrativa epica o mitologica: pur non escludendosi la possibilità che questo genere sia stato coltivato in Etruria, giova rilevare che la mentalità degli Etruschi non sembra portata alla feconda inventiva mitografica propria dei Greci. Salvo rare eccezioni, l’arte figurata imita e rielabora soltanto le saghe divine ed eroiche accolte dal mondo greco. Che i carmi conviviali e le satire fescennine (la cui origine si riportava alla città falisca di Fescennio) avessero paralleli in Etruria è possibile, ma non documentabile con certezza. Di elogi cantati in onore di personalità defunte s’intravvedono invece riflessi in alcune iscrizioni funerarie più lunghe e forse a struttura metrica o ritmica. La poesia drammatica, cui si riporta il ricordo di una certo Volnio autore di tragedie etrusche, nasce probabilmente soltanto in epoca tarda come imitazione del teatro greco.