I Personaggi:

Riportiamo brevemente la storia di alcuni personaggi caratteristici della storia etrusca. Come già ricordato nel capitolo precedente, è importante tenere presente che le notizie storiche pervenuteci sono state filtrate dal mondo culturale filo romano (tranne nel caso della vicenda del mitico Mastarna e dei Vibenna), per cui è lecito supporre che per alcuni tratti le vicende riportate si siano arricchite di leggenda, al fine di esaltare la cultura romana che aveva sconfitto quella etrusca. Cicerone Marco Tullio Fabia (gens) Furio Camillo Marco Mastarna ed i Vibenna Mecenate Caio Cilno Ocresia Porsenna Ravnthu Servio Tullio Spurinna (gens) Tanaquilla Tarquinio Lucio Prisco Tarquinio Lucio il Superbo Tullia Velia Virgilio Publius Maro Vulca MARCO TULLIO CICERONE

Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. in territorio di Arpino, da famiglia equestre nella villa paterna alla confluenza del Liri col Fibreno e sempre si considerò un puro Arpinate, quasi continuatore del grande conterraneo Mario. Nell’orazione Pro Plancio esprime vivo l’attaccamento viscerale alla sua terra di origine quando ricorda quale affetto leghi gli Arpinati fra di loro e con quale partecipazione questi seguano le sue vicende politiche. Lì, sui monti dei Volsci, aggiunge, è la forza d’Italia, perché ha conservato gli antichi costumi, senza malevolenze, senza finzioni e conclude: “La nostra patria è rozza e montuosa ma semplice e fedele”. E nel momento del suo esilio indica alla moglie Terenzia, quale rifugio sicuro, la villa di Arpino e al suo unico figlio egli darà la toga virile non in Roma, ma nel foro dell’antica città volsca. Cicerone ben presto fu inviato a Roma dove studiò Retorica e Diritto, ma anche Filosofia e Lettere e completò la sua preparazione ad Atene e a Rodi. Il suo cursus honorum iniziò nel 76 a.C. con una rapida e inarrestabile ascesa: fu questore nella Sicilia orientale, poi edile curule, pretore nel 66 a.C. e console nel 63. La sua oratoria robusta ed euritmica gli aveva aperto la strada alle affermazioni politiche. Nel periodo turbolento che viveva la Repubblica dei suoi tempi, Cicerone fu personaggio controverso: ora acclamato pater patriae dopo aver sventato la congiura di Catilina, ora esiliato per la vendetta di Clodio. In bilico fra il vecchio ed il nuovo fu incerto nello schierarsi, ma se la sua fede politica sembra mutare, sempre costante fu la sua fedeltà ai valori morali e alla Repubblica. Nella lotta fra Cesare e Pompeo si schiera con Pompeo, ma dopo Farsalo si riavvicina a Cesare. Le Idi di Marzo lo trovano dalla parte dei tirranicidi e con le Filippiche si scaglia contro Antonio. Quando questi si accorda con Ottavio, Cicerone capisce che la sua ora è suonata. E allora tutto, indecisione, incertezza, opportunismo, fu riscattato dalla sua morte affrontata consapevolmente, anzi cercata, e alte suonano le parole della seconda Filippica: “Ed ora per me, o Senatori, la morte rappresenta un desiderio ... Una sola cosa desidero: di lasciare libero morendo il popolo romano. Niente di più bello può essermi concesso dagli dei immortali”. Infatti raggiunto a Formia dai sicari di Antonio, gli fu troncata la testa che egli aveva sporto dalla lettiga. Era il 7 dicembre del 43 a.C. Le Verrine, le Catilinarie, le Filippiche furono i momenti più alti della sua oratoria; il De legibus, il De Officiis, il De Republica, le Tuscolanae sono l’espressione del Cicerone pensatore, studioso, interprete dell’anima latina. Le Epistolae, infine, sono il documento che ci rivela l’umanità, l’inquietudine, i dubbi e le angosce dell’uomo Cicerone. FABIA (Gens) La gens Fabia possedeva dei territori nella zona a ridosso di Veio e presto la lotta per il predominio territoriale divenne inevitabile. Nel 478 a.C. la famiglia dei Fabii, aveva chiesto e ottenuto l’autorizzazione al Senato, per combattere una sorta di guerra privata contro la la rivale etrusca. 306 membri della prestigiosa famiglia romana, accompagnati da una guarnigione di 4000 uomini, probabilmente loro clienti, si accamparono a poca distanza da Veio, sulle rive del fiume Cremeria, un piccolo affluente del Tevere. Da lì conducevano una guerra fatta di piccoli scontri, incursioni e razzie di bestiame. Il 13 febbraio del 477 a.C., caddero in un’imboscata preparata dai veienti: 305 componenti della famiglia dei Fabii, caddero sotto i colpi dei nemici. Solo un giovane si salvò e garantì in questo modo la discendenza dalla famiglia che rimase comunque una delle gens più importanti dell’antica Roma. FURIO CAMILLO Marco Generale e uomo politico romano (fine del V sec. a.C.- 365 a.C.). Censore nel 403, sei volte tribuno militare con potestà consolare tra gli anni 401 e 381, dittatore nel 396 a.C., si segnalò nella guerra contro gli Etruschi, conquistando Veio già assediata da dieci anni e raddoppiando il dominio territoriale di Roma. Tre anni dopo aver concluso la pace con i Falisci, in seguito a una condanna, andò in esilio ad Ardea (391). Secondo una tradizione poco verosimile, sarebbe tornato nel 390, dopo la presa di Roma da parte dei Galli, interrompendo le trattative di riscatto con la famosa frase « Non con l’oro ma con il ferro si salva la patria » e avrebbe ricacciato gli invasori. Attese, quindi, alla ricostruzione di Roma e diresse, nel 389 a.C., le guerre contro gli Equi, gli Ernici e i Volsci; inoltre aumentò l’effettivo dell’esercito romano, introducendo lo stipendio per i nullatenenti, e circondò il Campidoglio di potenti fortificazioni. Grande personalità ebbe il soprannome di Secondo Fondatore di Roma e la leggenda ne abbellì la figura e le gesta. MASTARNA ed i VIBENNA

RAVNTHU Ravnthu appartenne a due delle più grandi famiglie tarquiniesi: per nascita a quella dei Thefrinai e per matrimonio a quella ancora più prestigiosa e storica degli Spurinna. Quando morì fu deposta con gli Spurinna nella regale Tomba dell’Orco, dove ancora s’intravede dipinta in una nicchia, sullo sfondo di un paesaggio agreste. Indossa una tunica bianca ed è distesa con meravigliosa scioltezza in banchetto, accanto al marito Velthur il Grande, l ‘eroe che al comando di due eserciti etruschi partecipò come alleato di Atene all’assedio di Siracusa. Le sue quinquereme combatterono magnificamente nella battaglia di Lisimelia, ma quella fu l’ultima azione militare di vasta portata in cui, nel meridione, apparvero le forze navali di Tarquinia. Perché, come era stato scritto inesorabilmente, il tempo concesso dagli Dei alla nazione etrusca stava per concludersi e nel silenzio del cielo sereno era già risuonato lo squillo terrificante della tromba sacra che ne annunciava la fine. Roma invadeva le terre, atterrava le rocche, devastava i porti, ma Tarquinia resisteva e contrattaccava. Ogni volta, a difendere la libertà della città santa al nomen etrusco c’era uno Spurinna, strettamente legato per vincoli di parentela alla matriarca Ravnthu. Prima scese in campo suo figlio Velthur il giovane, poi suo nipote Avle, che i romani chiamavano Aulus. Avle Spurinna spodestò dal trono Orgolnius, re di Cere, liberò Arezzo dalla rivolta degli schiavi, tolse ai Latini nove città fortificate. Poi carico di orgoglio, di rancore e di sete di libertà, affrontò Roma in campo aperto. Tanta era l’ira di entrambe le parti che nessuna iniziò lo scontro con i giavellotti, gli archi e le altre armi da getto. La battaglia fu subito aperta con la spada, corpo a corpo, e la già inaudita violenza iniziale si accrebbe durante la lotta. I tarquiniesi vinsero e il prezzo che imposero ai vinti fu durissimo: con un implacabile cerimoniale che si protrasse per giorni e giorni, in un mare di sangue che inondò il Foro di Tarquinia, trecentosette prigionieri romani furono giustiziati davanti all’Ara della Regina. Nella seconda battaglia per la libertà, le truppe etrusche inferiori per numero furono sconfitte. Questa volta fu Roma a non avere pietà. I tarquiniesi vinti furono passati per le armi la sera stessa, sul luogo dello scontro. Trecentocinquantotto tra i più nobili furono invece trascinati nell’Urbe. Qui, in un crescendo di orrore che superò quello dell’eccidio dell’Ara della Regina, furono pubblicamente massacrati. I ricchi oliveti, i vigneti, i campi della città vinta furono bruciati e gli impianti idraulici insabbiati. Tarquinia non morì subito, anzi conobbe altri anni di effimero splendore. Poi, pian piano, uscì dalla storia. Mezzo millennio più tardi, però, un cittadino della Roma Imperiale, che nonostante l’oblìo dei molti secoli trascorsi voleva onorare il ricordo dei suoi antenati etruschi, fece incidere in una epigrafe, gli “Elogia Tarquiniensia”, le lodi degli Spurinna e il racconto delle loro grandi gesta. Tra i nomi degli eroi, con grandissima dignità e rispetto, volle immortalare anche quello di Ravnthu, la donna che orgogliosamente fu al centro della loro gente e della loro storia. L’epigrafe degli Elogia è conservata nel Museo Nazionale Archeologico di Tarquinia. SERVIO TULLIO Secondo la tradizione sesto re di Roma, che avrebbe regnato dal 578 al 535 a.C. Nato, in base alla leggenda, a palazzo reale da una prigioniera di guerra Ocresia, e dal lare domestico e allevato con ogni cura, dopo che un prodigio aveva preannuncato la sua futura grandezza, con l’aiuto della regina Tanaquilla succedette senza difflcoltà a Tarquinio Prisco, di cui aveva sposato la figlia. Il suo nome è associato a due fatti: la costituzione serviana e il tempio di Diana sull’Aventino. Non pare invece che si possano attribuire a lui le cosiddette mura serviane, almeno nello stato in cui sono conservate. Il carattere distintivo del suo regno fu il tentativo di fondere nativi ed etruschi. Servio venne educato a Roma nel palazzo reale. Sposò una figlia di Tarquinio. Nel 579 Tarquinio fu ucciso ad opera di persone legate all’ambiente dei figli di Anco Marcio, quarto re di Roma. Tanaquilla, dapprima nascose al popolo la morte di Tarquinio, e poi riuscì a far nominare Servio re di Roma. L’imperatore Claudio, autore di un storia dell’Etruria, parlando in senato a favore della concessione della cittadinanza romana agli abitanti della Gallia Comata, per sottolineare la tradizione romana di apertura all’accoglienza degli stranieri, narrò un storia diversa. Secondo Claudio, Servio Tullio, con il nome di Mastarna (vedi paragrafo), avrebbe avuto un ruolo importante nella storia di Vulci, città etrusca. Amico di Celio e Aulo Vibenna, signori di Vulci, avrebbe combattuto al loro fianco senza fortuna. Con i resti dell’esercito si sarebbe posto al servizio di Tarquinio, che per ricompensa gli avrebbe permesso di abitare con i suoi compagni sulla collina a cui diede il nome di Celio, in onore del suo capo. Questa versione potrebbe nascondere un fatto più grave: un esercito, proveniente da Vulci, avrebbe occupato Roma e ne avrebbe cacciato i Tarquini, che sarebbero rientrati alla morte di Servio Tullio, comandante dell’esercito invasore. Mastarna è un nome latino etruschizzato, deriva da magister e significhebbe qualcosa di analogo a “il condottiero”. Il termine servus, non di origine indoeuropea e forse etrusco, significava straniero senza diritti, apolide. In sostanza il sesto re di Roma sarebbe stato conosciuto con un nome etrusco a Roma ed uno latino in Etruria. La costruzione sull’Aventino del tempio dedicato a Diana, l’Artemide greca, fu un atto di politica internazionale. Il tempio di Artemide ad Efeso era considerato il simbolo della federazione delle città della Ionia in Asia Minore. Il culto di Diana e l’idea di federazione dovevano essere assai vivi nel mediterraneo occidentale dopo la rifondazione, avvenuta nel 540 a.C., della colonia greca di Marsiglia. La statua di Diana venne posta nel tempio romano esattamente come Artemide nel tempio di Marsiglia. Il tempio sull’Aventino, costruito intorno al 540 a.C., mirava a riunire politicamente e religiosamente Roma, il Lazio e l’Etruria meridionale, a somiglianza del sistema federale etrusco dei Dodici Popoli. Il tempio venne costruito fuori della città, su di un colle scarsamente abitato. Solo nel 465 l’Aventino diverrà zona residenziale con una legge ascritta al tribuno della plebe L. Icilio. La posizione esterna venne prescelta probabilmente per poter attirare il maggior numero di persone, poveri, immigranti, schiavi, ecc. La fondazione del tempio veniva festeggiata il 13 agosto. Servio Tullio eresse i templi gemelli di Mater Matuta e della dea Fortuna nel Foro Boario, il mercato in riva al Tevere. Mater Matuta è una divinità italica, con tempio principale a Satrico, città a sud di Roma. La dea della Fortuna, tradizionale divinità latina, era simboleggiata da una statua velata, come quelle degli dei etruschi del Fato. La fondazione dei templi gemelli veniva festeggiata l’11 giugno. Il tempio di Fors Fortuna venne costruito sull’altra sponda del Tevere, fuori della cinta cittadina e alle celebrazioni potevano partecipare gli schiavi. Servio Tullio divise la popolazione romana in base al territorio, indipendentemente da criteri etnici o di nascita. La cittadinanza venne a dipendere dal luogo di residenza. In tal modo molti immigrati, mercanti, agricoltori etruschi o di altra provenienza poterono divenire cittadini romani, fedeli a Roma prima che alla famiglia o al gruppo etnico. Vennero definite 4 tribù urbane: Suburana (il Celio), Palatina, Esquilina, Collina. Il numero delle tribù extra-urbane, inizialmente 16, arrivò in seguito a 31. L’appartenenza ad una circoscrizione territoriale (tribus), basata sul domicilio, consentì lo sviluppo di un catasto per valutare i beni fondiari ed assegnare i cittadini ad una classe e fissare il tributum relativo. Il popolo romano fu diviso in cinque classi di cittadini/soldati in base al censo. Ogni classe forniva all’esercito un certo numero di centurie, gruppi di cento uomini. Nella prima classe, la più ricca, si reclutavano 18 centurie di cavalieri e 80 di fanti, Nella seconda, terza e quarta 20 centurie e nella quinta 30. Un sistema di tassazione proporzionale al reddito. Erano esentati dal servizio militare e dalle spese connesse i cittadini con un reddito molto basso (i capite censi). Le centurie all’interno di ogni classe si distinguevano in quelle formate da seniores, la riserva dei cittadini al di sopra di 46 anni, e quelle formate da iuniores, i combattenti effettivi. Le centurie di iuniores e di seniores erano in numero pari. La prima classe era armata con elmo, scudo tondo, corazza e schinieri, lancia, giavellotto e spada. La seconda classe era armata come la prima, ma senza corazza. Portava uno scudo più piccolo e allungato. La terza classe aveva elmo e armi offensive. La quarta classe aveva lancia e giavellotto. La quinta classe aveva delle fionde. I diritti politici erano proporzionali ai servizi che i cittadini fornivano all’esercito. Ogni centuria, in quanto unità di combattimento era una unità di voto. I capite censi formavano una sola centuria. Due centurie erano riservate al genio (carpentieri e fabbri) e votavano con la prima classe. Due centurie erano riservate ai musici e votavano con la quarta classe. In totale si avevano 193 centurie, con maggioranza assoluta della prima classe (80+18). Il sistema eliminava i privilegi della nascita o della etnia, e nel contempo evitava gli inconvenienti della tirannia del numero. I Comizi Centuriati costituirono l’assemblea dei soldati e si riunirono all’esterno dei sacri confini della città. Questa assemblea divenne l’entità dominante dopo la caduta della monarchia, sia dal punto di vista legislativo che elettorale. Sarebbe stato infine ucciso dal genero, Tarquinio il Superbo, d’accordo con la moglie Tullia, la quale non esitò poi a passare con il cocchio sul suo corpo nel vicus che dal fatto prese il nome di sceleratus. SPURINNA (Gens) A Tarquinia, nel IV sec. a.C., la famiglia più potente ed egemone è quella degli Spurinna (Larth, Velthur, Aulus). I vasti interessi di questa famiglia realizza un’ alleanza con la grande potenza ateniese e trascina appresso numerose città etrusche (si potrebbe pensare ad una alleanza stipulata o consacrata al Fanum Voltumnae). In questa alleanza, nel bene e nel male, il popolo etrusco è rappresentato da Velthur Spurinna praetor di Tarquinia e figlio di Larth Spurinna. La carica di praetor è la massima magistratura politico-militare, ma non religiosa, della città stato (simile forse al consul romanus), sembra che Velthur l’abbia ricoperta per ben tre volte. A lui viene affidato il comando della spedizione di soccorso ad Atene impegnata nell’assedio della odiata rivale Siracusa nel 414-413 a.C.. Lo scontro definitivo tra Tarquinia, ancora potente e alla testa della lega delle città etrusche, e Roma, data al 358-351 a.C. e si conclude con una tregua di 40 anni allo scadere della quale, dopo un nuovo scontro armato conclusosi nel 308 a.C., la tregua viene rinnovata per un uguale periodo. Di queste vicende conosciamo la versione romana tramandataci da Tito Livio, ora integrata con la versione etrusca fornita da alcuni frammenti degli elogia relativi alle gesta di Aulo Spurinna, figlio o nipote del capostipite Velthur. Gli Spurinna ritornano alla ribalta con Giulio Cesare. Il generale romano aveva al suo seguito un indovino discendente della famiglia tarquiniese che gli aveva consigliato di non recarsi in Senato la mattina del tragico eccidio. TANAQUILLA Nella splendida Tarquinia del VII secolo a.C., Tanaquilla era la donna che più assomigliava alla città. Nobile, ricchissima, ambiziosa, era ammantata di una sacralità speciale, poiché nessuna come lei era esperta nelle dottrine tagetiche. Sapeva leggere i segni attraverso i quali si manifestavano gli Dei e, come toccata dal divino, aveva il dono di interpretarli in modo da stornare da essi tutto quello che si opponesse alla propria volontà e allontanare ogni significato che ostacolasse i suoi progetti, trasformando così il suo fascino divinatorio in potere personale al quale tutti finivano per piegarsi. Sposò Luchmon, figlio di una Tarquiniese e del greco Demarato che, fuggito da Corinto con un seguito di ceramisti eccellenti e di pittori squisiti, si era stabilito a Tarquinia, inondandola di bellezza e di ricchezza. Ma a Luchmon, proprio perché figlio di uno straniero sia pure così eminente, non era permesso dalle rigorose tradizioni etrusche di percorrere la carriera politica fino ai massimi livelli. L’esclusione dai giochi del potere sembrò intollerabile a Tanaquilla, che convinse il suo uomo a trasferirsi a Roma, città ancora giovane e in cerca di una propria identità dove tutto poteva accadere a chi era intelligente, intraprendente e ricco. Fu lei, che orgogliosa e impavida sapeva guidare i veloci carri da corsa degli etruschi, a prendere personalmente le redini del pilentum a quattro ruote carico di vasi dipinti e di preziosità di ogni genere con il quale, lasciando Tarquinia insieme al suo compagno, affrontò un destino che avrebbe cambiato la storia. Sul Gianicolo, il primo colle di Roma che si incontra giungendo dall’ Etruria, accadde un evento prodigioso: un’aquila piombando dal cielo ad ali spiegate, ghermì il cappello di Luchmon e dopo aver volato con alti stridi, glielo ripose in capo, come se solo per questo fosse venuta. Infine si rialzò in volo e sparì nel cielo altissimo. Luchmon ritenne infausto il presagio e ne rimase sopraffatto. Tanaquilla, invece abbracciò con riverenza il marito e vaticinò la gloria che lo attendeva: l’aquila scesa da altezze così grandi era il messaggero dei Numi e aveva tolto e rimesso il berretto etrusco sulla sua testa per significare che con lui stava entrando in città un vero capo che, voluto dagli dei, avrebbe reso Roma più grande e più potente. Infatti Luchmon che era saggio e generoso ma che soprattutto sapeva combattere a cavallo e a piedi più coraggiosamente degli altri, divenne re con il nome di Lucio (Luchmon) Tarquinio (proveniente da Tarquinia) Prisco, il primo dei re etruschi. In quel tempo, Roma non era una vera città: sui colli tiberini esistevano soltanto sparuti gruppi di villaggi e nei luoghi pianeggianti regnava ancora la palude. Tarquinio la drenò, trasformò il terreno prosciugato in mercato, il futuro Foro Romano e di qui fece partire un reticolo di strade lastricate tra le quali la Via Sacra. Poi costruì gli edifici che sarebbero rimasti per sempre il nucleo monumentale dell’Urbe e gettò le fondamenta del tempio di Giove Capitolino. Infine, trasmise ai romani tutti i cerimoniali e i simboli che a Tarquinia significavano l’ autorità: i littori con i fasci di verghe e la scure, le porpore ricamate, le corone d’oro, i troni e gli scettri d’avorio sormontati dall’aquila e l’ uso di trionfare sul carro aureo a quattro cavalli. Musici, danzatori, atleti, artisti tarquiniesi invasero la città e riuscirono ad incantarla. Da allora Roma incominciò a rincorrere un sogno: diventare nel tempo raffinata come Tarquinia e superarla in grandezza e splendore. Poi, negarne con crudeltà la dipendenza e cancellarne per sempre il nome dalla storia.

TARQUINIO Lucio PRISCO Secondo la tradizione quinto re di Roma, che avrebbe regnato dal 616 al 578 a.C. Figlio di Demarato, un esule corinzio stabilitosi a Tarquinia, insieme con la moglie Tanaquilla si sarebbe trasferito a Roma, dove, mutato il nome Lucumone in Lucio Tarquinio e accattivatosi il favore di Anco Marcio, alla sua morte sarebbe riuscito a farsi eleggere re lasciando in disparte i giovani figli del sovrano, che circa 38 anni dopo lo avrebbero fatto uccidere nel tentativo di riconquistare il trono. La tradizione gli attribuì la nomina di cento nuovi senatori, I’istituzione dei duoviri sacris 1aciundis e dei ludi magni (romani), I’introduzione a Roma di usi e costumi tipicamenie etruschi (in particolare le insegne regali, quali lo scettro, la toga purpurea, la sella curalis, i fasci littori, e il rito del trionfo) I’intrapresa di importanti opere pubbliche (Cloaca massima, circo Massimo, tempio di Giove sul Campidoglio, ecc.) e vittoriose campagne contro Sabini e Latini. Figura di indubbia storicità, al di là dei particolari leggendari e sebbene sia da alcuni storici considerato tutt’uno con Tarquinio il Superbo, è generalmente identificato con il Cnere Tarchunies Rumach raffigurato nelle pitture della tomba Francois di Vulci, che rispecchiano una tradizione diversa (etrusca) da quella ufficiale romana. TARQUINIO Lucio il SUPERBO Secondo la tradizione settimo e ultimo re di Roma, che avrebbe regnato dal 535 al 509 a.C. Figlio o nipote del precedente, si sarebbe impadronito del trono dopo aver fatto uccidere Servio Tullio, di cui aveva sposato la figlia Tullia. Astuto e senza scrupoli, per ampliare il proprio dominio si servì più che delle armi, come contro i Volsci, di spregiudicati stratagemmi, come quelli escogitati per impadronirsi di Gabi (l’uccisione dei più influenti cittadini cui avrebbe alluso, tagliando i papaveri di un campo) e per assicurarsi la supremazia nell’ambito della Lega latina. Ma con i suoi metodi tirannici e oppressivi (scarsa considerazione per il senato, arbitraria amministrazione della giustizia, mantenimento di una guardia del corpo, imposizione di corvées) avrebbe suscitato sia tra i patrizi sia tra la plebe gravi malcontenti, sfociati infine in aperta ribellione per la violenza usata da suo figlio Sesto alla nobile Lucrezia. Cacciato quindi da Roma con tutta la famiglia, avrebbe poi tentato invano di ritornarvi, con l’aiuto di Porsenna e dei Latini. La tradizione gli attribuisce inoltre il compimento della Cloaca massima e del tempio di Giove sul Campidoglio. Considerato da alcuni studiosi moderni personaggio storico, è da altri ritenuto un semplice sdoppiamento di Tarquinio Prisco. TULLIA Tullia, figlia del sesto re di Roma, era una vera etrusca. Per sangue, perché nipote di Tanaquilla e di Tarquinio Prisco; per diritto, perché sposò il più superbo dei Tarquinii; per temperamento, perché ambiziosa e determinata. Era così sfrenatamente assetata di potere che viene ricordata come uno dei personaggi più torvi e crudeli della complessa saga che determinò, nel bene e nel male, la vita di Roma ai tempi della monarchia. In una cupa atmosfera di complotti di palazzo, uccise il suo primo marito che riteneva inadeguato a soddisfare le sue ambizioni. Poi eliminò sua sorella che aveva sposato il nobile Tarquinio, detto il Superbo, un giovane di grande fascino, di eccezionale intelligenza e di illimitata spregiudicatezza. Con Tarquinio e per Tarquinio, di cui diventò consorte e complice, Tullia continuò ad ordire sempre nuove congiure, rivolgendosi infine contro il proprio padre, Servio Tullio, il re colpevole di aver emanato una Costituzione che limitava la signoria unica ed assoluta tanto cara alle nobili famiglie etrusche trasferite a Roma. Aveva imposto anche ai patrizi i tributi da pagare secondo il censo, perché riteneva “conveniente e vantaggioso per la comunità che chi possieda molto, dia molto, chi poco, dia poco”. Per questo la Factio Tarquinia, cioè la fazione degli aristocratici tarquiniesi che vedevano imbrigliata la loro egemonia su Roma, ribolliva e Tullia, impaziente di prendere il potere, ne inaspriva gli animi con furiosa perseveranza. Finalmente il regicidio si compì, nel Vicolo Ciprio, dove Tarquinio il Superbo sferrò spietatamente l’attacco da cui il vecchio Servio Tullio non uscì vivo. Tullia, fremente, non poté attendere chiusa nel suo palazzo l’esito della congiura, perciò, scansato l’auriga, si recò sul luogo del massacro guidando personalmente il suo veloce carro etrusco. Con questo, come invasata, calpestò più e più volte, il corpo del padre. Poi, grondante di sangue paterno, prima ancora che qualcun altro parlasse, gridò che Roma ora aveva un altro re. Finalmente un grande re, suo marito Tarquinio. Lucio Tarquinio, detto il Superbo, fu davvero grande: sotto di lui Roma divenne una potenza militare imbattibile e schiere di commercianti, ingegneri, idraulici, agronomi e di artisti, interi collegi di musici e danzatori scesero dall’ Etruria e vi portarono arte, progresso e benessere. La stella di Tarquinia che, madre di Roma, irradiava civiltà raffinatezza e bellezza, non brillò mai così fulgida come in quel magico tempo. Ma presto il regno si trasformò in aperta tirannide: il Superbo, che già disprezzava la plebe, riempì la città di spie e di provocatori per perseguitare chiunque si opponesse al suo arbitrio, non solo i romani ma anche i nobili etruschi che gli avevano dato il potere, persino alcuni Tarquinii suoi familiari. Proprio da questi fu cacciato per sempre da Roma. Nella vicenda che portò alla repentina caduta della monarchia etrusca che sembrava incrollabile, giganteggiò ancora una volta una donna. Si chiamava Lucrezia. VELIA E’ nota in tutto il mondo come la Fanciulla Velca. Il suo squisito ritratto è considerato uno dei capolavori dell’arte antica ed è il frammento più “classico” di tutta la pittura funeraria etrusca. Si chiamava Velia, Velia Spurinna. Era nipote di Velthur il Grande, che aveva comandato due eserciti etruschi all’assedio di Siracusa e di Ravnthu Thefrinai: era sorella di Avle, l’eroe Tarquiniese che affrontò Roma in campo aperto e la vinse. Sposò Arnth Velcha, appartenente ad un’aristocratica famiglia di magistrati di rango così alto che avevano il diritto di essere scortati dai littori con i fasci di verghe e l’ascia bipenne che, prima a Tarquinia e poi a Roma, furono il simbolo del massimo potere. Dei Velcha conosciamo anche l’aspetto perché molti di essi furono dipinti nelle pareti della loro grande Tomba degli Scudi, che prende il nome dalle armi raffigurate in uno dei suoi affreschi. Qui tra gli altri, appaiono anche i genitori di Arnth che, adagiati sul letto conviviale davanti ad una tavola imbandita, si scambiano l’uovo dell’eterna fertilità mentre una giovane ancella muove per loro un ventaglio di foglie e di piume. Arnth e suo fratello Vel, avvolti in caldi mantelli, stanno invece in piedi vicino ad una porta. Velia, sposando, assunse dai Velcha il nome con il quale è nota in tutto il mondo. Eppure portava in sè così impresse la grazia e la dignità degli Spurinna che questi, straziati dalla sua morte forse precoce, la vollero dipinta nella loro Tomba dell’Orco. Ora, basta scendere i ripidi scalini di questo regale sepolcro, fare pochi passi e cercare con gli occhi: improvvisamente la fanciulla ci appare in un piccolo affresco sospeso in un mare grigio e indistinto di colori consunti dai millenni. Si presenta di profilo, quel suo famoso profilo netto come una scultura che, reso con grande realismo ma stemperato nella dolcezza dei particolari, ancora suscita stupore e costituisce l’immagine più nota dell’ iconografia etrusca. La ragazza veste una morbida tunica e un mantello bordato di rosso. Indossa gli ornamenti preziosissimi ma semplici degni del suo rango: orecchini a grappolo, collane di ambra, la corona di foglie d’ alloro dorato sulla chioma. I capelli castani sono in parte trattenuti alla nuca da una elegante reticella, in parte ricadono in morbidi boccoli ai lati del volto. Che è assorto. Il naso è dritto, di linea greca. Le labbra sono piene e sensuali ed evocano perduti contatti d’amore. Perciò si piegano in un sorriso doloroso quasi che il richiamare le gioie della vita appena trascorsa procuri ancora alla ragazza innamorata un rimpianto insostenibile. Gli occhi invece guardano lontano e sembrano già aver trovato nei misteri della morte i motivi per accettare senza dolore tutti i distacchi. Come un’ ombra paurosa sta dietro di lei una creatura dalle ali gigantesche. Ha i capelli pieni di serpi, le orecchie di animale e lo sguardo che lampeggia rosso sull’orribile naso a becco d’avvoltoio. È Charun, il traghettatore delle anime nel loro ultimo oscuro viaggio nell’Ade, che brandisce il pesante martello con il quale spegneva la vita dei mortali. Ma questa volta il Demone Etrusco ha perduto, perché la fanciulla dei Velcha ancora oggi, nonostante i millenni, continua ad incantare e a sedurre, sospesa tra la vita che non vuole andarsene e la morte che ancora non vince. VIRGILIO Publius Maro Publius Virgilius Maro nacque a Pietole [allora: Andes, vicino Mantova] nel 70-, suo padre era un agiato proprietario terriero, fece i primi studi a Mantova e Cremona, poi a 15 anni a Milano e infine a Roma. Seguì i corsi del retore Epidius ma li abbandonò: era goffo e timido, parlava con lentezza e non sapeva affrontare il pubblico. Andò a Napoli, alla scuola del filosofo epicureo Syro: si interessò di astronomia botanica zoologia medicina matematica. Scrisse i primi versi, nel gusto del conterraneo Catullus. Compose a 28 anni le Bucoliche. In questo periodo, durante la distribuzione di terre italiche ai veterani di Filippi, perse temporaneamente i poderi (ne parla dolorosamente nei canti pastorali), poi restituitigli per interessamento di Asinius Pollio che governava la Cisalpina, e di Alfenus Varo. Abitò però sempre tra Napoli e Roma: qui aveva una casa presso i giardini di Maecenas, sull’Esquilino. Nel 39\37 entrò nel circolo di Maecenate. Sempre discreto e timoroso, quando di rado veniva a Roma a trovare i suoi amici poeti Cornelius Gallus, Horatius, Varius, Tucca ecc., tutti del circolo di Maecenas, era già additato dalla gente, famoso per le “Bucoliche” spesso cantate in teatro da attori di professione. In Campania nel 37\30 compose le “Georgiche”, poi si dedicò tutto all’Eneide. Diversamente da quanto, secondo la tradizione, era solito fare (cioè alzarsi presto la mattina, buttar giù molti versi, e poi sillabarseli interiormente durante il giorno) fece prima una stesura in prosa, divise la trama in dodici libri, poi si mise a comporli uno per uno seguendo il suo estro e non la successione dei fatti. Nel 24 ne lesse tre canti alla corte davanti all’imperatore Augusto e a sua moglie Ottavia. Dopo 11 anni di lavoro, a opera compiuta, non era ancora soddisfatto: molti versi provvisori, discordanze tra un libro e l’altro, voleva visitare i luoghi teatro d’azione della prima parte. A 56 anni partì per Atene: qui, dopo una giornata a Megara sotto il sole infuocato, si ammalò. Incontrò ad Atene l’imperatore proveniente dall’oriente, si imbarcò con lui per mare, sbarcò a Brindisi. Si dice che sul letto di morte volesse avere il manoscritto per distruggerlo, ma non fu accontentato. Spirò qualche giorno dopo, nel settembre 19. La sua salma fu trasportata a Napoli e sepolta sulla strada di Pozzuoli. VULCA Nell’ambito del rinnovamento dei santuari veienti nel tardo VI sec. va senz’altro collegato il nome dell’unico artista etrusco tramandatoci dalle fonti, Vulca di Vulci, al quale la tradizione romana assegna origini veienti e la creazione della statua acroteriale del tempio di Giove Capitolino a Roma, all’epoca di Tarquinio il Superbo. La coincidenza tra questi dati delle fonti e l’emergere a Veio, nell’ultimo decennio del VI sec. a.C., di una scuola di maestri coroplasti (cioè scultori in terracotta) autori di grandi statue acroteriali (cioè destinate ad ornare i vertici dei frontoni dei templi) per il Santuario di Portonaccio (ma un’antefissa è nota anche dal Santuario di Porta Caere) è tale da autorizzarci a ritenere autentica la tradizione romana, e ad attribuire a Vulca e alla sua scuola la paternità del celebre Apollo di Veio e delle altre sculture decoranti il tetto del tempio di Portonaccio.

MECENATE Caio Cilno Caio Cilno Mecenate, nato ad Arezzo nel 69 a.C. e discendente da una schiatta regale etrusca, divenne il personaggio più famoso della corte augustea. La famiglia dei Cilni risaliva al IV secolo a.C. Militare, nella prima parte della sua vita, e politi­co, Mecenate fu testimone della trasformazione definitiva di Roma e del passaggio dalla Repubblica all’ Impero. Eletto “vicario” da Ottaviano per la grande fiducia che era riuscito ad ispirare, seppe accontentarsi del titolo di “eques”, proprio degli appartenenti all’ordine equestre, classe sociale definita da Orazio “la più eletta del popolo per squisitezza di gusto” (Sat. 1,10,76). Ritiratosi dalla vita politica, visse delle ricchezze familiari che gli provenivano da certe fabbriche di vasi che fiorirono in Arezzo dal 30 a.C. in poi. Nella vita privata si dedicò solo ai piaceri dello spirito scrivendo, conversando e “banchettando” alla maniera etrusca. Seppe, con oculatezza rara, scegliersi gli amici. Nel suo ruolo di “scopritore di talenti” Mecenate si era creato una cerchia di amici di notevole sensibilità: Virgilio, Properzio, Gallo, Orazio, Marziale. Con intuito e riservatezza tipicamente etruschi, tra questi ne preferì due che hanno dato fama al suo nome: Virgilio e Orazio. Virgilio, privato dei campi in riva al Mincio dalle riforme di Augusto e con la speranza che gli sarebbero restituiti, il Poeta arrivò a Roma. Asinio Pollione, governatore delle terre sul Mincio, lo presentò a Mecenate. Virgilio già autore delle Bucoliche dove si esaltava la vita pastorale, piacque all’”etrusco” che intercedette presso Augusto. Ma il centurione Arrio, divenuto nel frattempo proprietario di quei campi, minacciò di “accoppare” il Poeta. Mecenate allora, come risarcimento dell’esproprio subito, assicurò a Virgilio un podere in Campania. Nel “fundus” napoletano, solitario e lontano dal viavai cittadino, il Poeta poté astrarsi, meditare e riscoprire la stessa pace dei campi mantovani. E nacquero le Georgiche che trattano della bellezza dei campi. Le umili origini di Orazio sono note a tutti. Figlio di un liberto e nato in un piccolo centro sulla via Appia, Venusia o Venosa, vicino a Potenza, in Basilicata. Per i sacrifici del padre, Orazio ebbe un’educazione letteraria degna di un nobile. La povertà e la cattiva sorte lo perseguitarono a tal punto che dovette accontentarsi di un mo­desto ufficio di scrivano quando Virgilio lo presentò a Mecenate. Il lungimirante etrusco trovò essenziale, al vivere, il buon senso e 1’avversione ad ogni gesto irrazionale del Poeta. In seguito si stabilì tra i due uomini una stretta amicizia che proseguì fino alla morte avvenuta per entrambi nello stesso anno: l’ 8 d.C.. Mecenate aveva donato al fedele amico una villa in Sabina. Qui Orazio si ritirava nei suoi ozi meditativi spesso raggiunto dallo stesso Mecenate. Le Satire e le Odi, tra le opere di Orazio, sono le più significative per il nostro argomento. Il ricco e raffinato etrusco non disdegnava sedere alla parca mensa dell’amico a mangiare olive e bere il vino modesto che la terra sabina - corrispondente, oggi, in parte alla provincia di Rieti e in parte al territorio di Roma - offriva. Nel descrivere la villa di Mecenate, Orazio ammirava le ghirlande composte di fronde verdi, miste a frutta e fiori, che pendevano dalle pareti dei triclinii. OCRESIA Ocresia era un’ancella che Tanaquilla aveva scelto tra molte fanciulle tarquiniesi per portarla con sè a Roma. Oppure, come dicono alcuni, una semplice serva; o, come affermano altri, una schiava condotta come bottino di guerra nella reggia romana, dopo la morte in battaglia di suo marito, il re di Cornicolum, dal quale aspettava un figlio. Comunque siano andate le cose, Ocresia entrò presto nel potente cerchio magico e divinatorio della regina Tanaquilla e diventò così un personaggio chiave nella tormentata storia della monarchia etrusca nell’Urbe, perché fu madre del sesto re di Roma. Sulla nascita e la giovinezza di questo re si raccontano fatti straordinari: “Un giorno - apprendiamo da Plinio - apparve tra le fiamme di un focolare della reggia di Tarquinio Prisco un membro virile e Ocresia che lì sedeva ne fu resa incinta. Il figlio che nacque da questo concepimento magico si chiamò Servio Tullio”. L’insolito evento era stato quasi dimenticato col passare del tempo, “quando - è Livio che ora racconta - avvenne un altro fatto mirabile. Tutti videro lunghissime fiamme ardere intorno alla testa di Tullio giovinetto”. Tanaquilla chiamò il re e, avendo accanto Ocresia, profetò: “Il figlio di questa donna e del nume che per lui si manifesta con il fuoco, sarà nei momenti oscuri il salvatore degli etruschi in Roma. E come ora splendono queste fiamme che gli avvolgono il capo, così da lui verrà molta luce alla casa dei Tarquinii”. Il giovane, protetto dai vaticini, fu allevato con tale regalità che Tarquinio Prisco, non conoscendo un romano che reggesse il suo confronto, quando giunse l’ora gli dette in sposa sua figlia. I ritrovamenti archeologici più recenti contrastano nettamente con queste leggende e dimostrano in modo inequivocabile che in realtà Servio Tullio era Mastarna, l’eroe di Vulci che si recò a Roma non per difendere i Tarquinii che riteneva arroganti e tirannici, ma per combatterli a favore del popolo e riorganizzare gli ordinamenti pubblici. A lui si deve, infatti, la Costituzione Serviana che eliminava i privilegi della nobiltà del sangue e assegnava per la prima volta i diritti politici e la possibilità di entrare nelle milizie a tutti i cittadini, anche romani. Ma per le leggende, dure a morire, il suo destino regale nacque, si snodò e si compì nella reggia dei Tarquinii, manovrato dalla ferrea volontà di Tanaquilla. Infatti quando Tarquinio Prisco venne ucciso in una congiura di palazzo sulla quale tutto è lecito ipotizzare, fu lei a tenere nascosto per molto tempo il cadavere del marito e a regnare in sua vece nel chiuso della reggia. Solo quando tutte le fazioni si furono piegate ai suoi disegni e tutte le opposizioni furono sedate nel sangue, Tanaquilla apparve solennemente al popolo per comunicare che il vecchio re era appena morto. Poi annunciò con voce ferma e autorevole che il nuovo re di Roma era Servio Tullio, figlio di Ocresia e del Fuoco, considerato dagli stessi Dei un Tarquinio perché nato prodigiosamente nella loro reggia.